il Fatto Quotidiano, 4 maggio 2021
Gli scrittori e la corsa
Sul bordo strada o lungo i sentieri dei parchi capita di incrociare uomini e donne sibilare come pentole a pressione, con macchie di sudore a forma di continenti sulle magliette e le scarpe a tinte pastello che si sollevano al ritmo di corse più o meno sfrenate.
In mezzo alla fauna dei runner si nascondono professionisti insospettabili e casalinghe annoiate. E se tra loro allignassero pure gli scrittori? No, improbabile. Chi inventa storie è un culo di pietra, uno che resta seduto davanti al pc semmai a far galoppare i polpastrelli, non certo le gambe.
La storia della letteratura non contempla proprio sportivi memorabili. Giosuè Carducci trascorreva il tempo libero a giocare a briscola, Giovanni Verga chinato su un tavolo da biliardo, Giacomo Leopardi si ingozzava di gelati, Giovanni Pascoli si sbronzava, Italo Svevo era un accanito fumatore proprio come il suo Zeno. Gabriele D’Annunzio, che pure amava vantarsi per le sue prodezze, quando tentò di giocare a calcio al primo contatto col pallone cadde a terra e si ruppe due denti. In compenso, rara eccezione, Pier Paolo Pasolini ha consumato tanti campetti di periferia, dribblando gli avversari con una prestanza fisica invidiabile.
Tutti pigri anche tra i contemporanei? A smentire l’idea del letterato sedentario alla Balzac (non è un caso che con sindrome di Balzac si indichi un accentuato doppio mento), ecco il nostro Mauro Covacich che si misura in un’autobiografia atletica con Sulla corsa, in libreria per La nave di Teseo. L’autore triestino, anche sulla scorta dei suoi romanzi precedenti, insiste: “La corsa è una prodigiosa malattia della mente”. I runner non sono che “una comunità di asceti laici” perché “la maratona assomiglia a una vertigine introspettiva. Il maratoneta trova dentro di sé il proprio avversario. I limiti del corpo, i limiti della mente, è questo che intende forzare”.
Covacich sembra rispondere a Haruki Murakami, che con L’arte di correre è diventato l’icona dello scrittore corridore. Per il giapponese, eterno candidato al Nobel, correre, anziché una religione, sembra essere più una metafora da prendere a prestito per mostrare, in un parallelo con la scrittura, i momenti di crisi e i traguardi raggiunti.
Murakami sgambetta per i prati verdi di Cambridge dove insegna ascoltando con gli auricolari i Red Hot Chili Peppers. Rappresenta una versione più pop perché Covacich, è bene ribadirlo, officia un culto quando dal pulpito del suo acido lattico sentenzia: “È questo che eccita l’atleta: l’ascesi, la privazione, la metamorfosi. E un vago senso di onnipotenza… il grande oltraggio a Dio: non ho bisogno di nulla, ho vinto la materia”.
Potrebbe sottoscrivere un altro devoto dell’equilibrio tra mente e corpo come il francese Emmanuel Carrère, atteso a fine mese per Adelphi con il suo nuovo Yoga. Un autore come Marco Mancassola ha dichiarato che è inseguito dalle risate quando afferma che va a correre “per scrivere bene”. In un suo racconto ispirato ecco come la mette giù: “Credo che gran parte della mia esperienza di atleta dilettante ma soprattutto di scrittore sia in quel momento sospeso, in bilico, in quello stare spaventato e fiducioso nell’aria, aspettando che il piede trovi l’altro bordo del fossato”.
La letteratura consente ad altri scrittori di sublimare sulla pagina la passione di correre e non si capisce più se a battere l’asfalto siano i piedi degli scrittori medesimi o dei personaggi. Pensiamo a Correre di Jean Echenoz: Zatopek, operaio cecoslovacco, vincerà tutte le gare di fondo e di mezzofondo alle Olimpiadi di Helsinki; Il maratoneta di William Goldman (da cui il film con Dustin Hoffman): storia di spionaggio ma Babe, il protagonista, pur non disputando mai una gara agonistica, ha la moralità del corridore quando suda intorno al laghetto di Central Park; La solitudine del maratoneta di Alan Sillitoe: Colin, avviato agli allenamenti appena varca i cancelli del riformatorio, scopre nella corsa una possibilità di sradicamento; Crampi di Marco Lodoli: un corriere si iscrive a una maratona notturna in mezzo a deragliati, freak, fuori di testa; Non dirmi che hai paura diGiuseppe Catozzella: Samia, atleta di Mogadiscio, vuole partecipare alle Olimpiadi ma il viaggio per raggiungere l’Europa avrà il peggiore degli epiloghi. Covacich in A perdifiato aveva messo in bocca a un suo personaggio il movente più intimo di questa passione tanto esplorata anche in caratteri tipografici: “Resistere alla più alta velocità possibile per una strada così lunga è la cosa più bella che una mente umana possa produrre”.