Il Messaggero, 4 maggio 2021
Napoleone e Sant’Elena
A vederla sulle carte vengono i brividi. Un puntino sull’immenso Atlantico, millenovecento chilometri dalla costa più vicina, quella africana. Uno scoglio nero di lave primordiali, nel quale al sorgere del XVI secolo impavidamente veleggiando s’imbatté il portoghese João da Nova. Diciamolo subito: per coloro i quali la battaglia di Waterloo è da considerare una sconfitta (e chi scrive ne è convinto), questo atollo perennemente schiaffeggiato dai marosi emana un’irriducibile tetraggine. Oggi, computer e telefoni cellulari la tengono collegata al mondo, ma cosa doveva essere l’isola di Sant’Elena in quel 1815, quando, dopo settantadue giorni di navigazione, vi sbarcò Napoleone? Un esilio forse più atroce di una sbrigativa condanna a morte.
Sant’Elena. Ma l’avete vista su un mappamondo? Non si può immaginare niente di più remoto. Noi che abbiamo imparato ad amare Napoleone dalle opere di Stendhal, Victor Hugo, Goethe e Chateaubriand (suo malgrado); e di Foscolo, Manzoni, Dostoevskij e persino Tolstoj (neanche il geniale autore di Guerra e pace, per quanto si sia sforzato, è riuscito a deturpare l’immagine di Napoleone); noi che sui libri di scuola, rapiti, ne abbiamo seguito le gesta (esaltante parentesi, la sua epopea, in un frullare di oscuri e noiosi intrighi di palazzo), non possiamo non considerare quest’isola una macchia nella gloriosa pagina di storia che tramanda il nome del grande Corso.
LA MEMORIA
«Fu vera gloria?». Se lo chiederanno certo coloro i quali, raggiunto quel remoto grumo incastonato nell’Atlantico, si troveranno davanti a una nuda pietra con incise due sole parole: «Qui riposa». Questo e basta. Chi, al mondo, ha potuto permettersi, da morto, di fare a meno persino del proprio nome? Sì, in quell’angolo appartato di Sant’Elena riposa la memoria dell’uomo che sconvolse l’Europa, il geniale stratega, l’illuminato promulgatore dei Codici, strumento di progresso civile per i popoli d’Occidente. Ricorda, quella tomba, l’affossatore della Rivoluzione francese e nello stesso tempo ecco la sua grandezza colui il quale i salutari effetti di quell’evento seppe trapiantare nelle nazioni conquistate; e più oltre, negli Stati Uniti d’America, e dovunque vi fossero uomini disposti a guardare avanti. Ma, a Sant’Elena, c’è solo quella pietra a ricordarlo, perché come tutti sappiamo, dopo diciannove anni dal seppellimento, i resti di Bonaparte, così come egli aveva lasciato scritto, furono portati a Parigi, nel degno mausoleo di Les Invalides, «sulle rive della Senna, in mezzo al popolo francese» che tanto amò.
Gli imponenti funerali di Napoleone, il 15 dicembre 1840, ebbero un cronista adeguato. Fu lo scrittore Victor Hugo a seguire passo passo l’apoteosi postuma dell’Imperatore, spirato il 5 maggio 1821 nel luogo più sperduto che allora si potesse immaginare. «Quando il corteo funebre giunge in Rue de Four, la neve s’infittisce», annota Hugo. «Il cielo si fa nero. I fiocchi di neve lo seminano di lacrime bianche. Sembra che anche Dio voglia partecipare». E che «rumori di martelli in azione, quel battito di piedi degli spettatori per scaldarsi nell’attesa».
«Dall’Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno». Umanamente si è tentati di chiedersi come sarebbe stato il mondo oggi, come saremmo noi, se Napoleone non fosse mai esistito. Domanda inutile, perché gli archi di trionfo sono lì a ricordarci che con i se la storia non si può né ricostruire né indagare. La grandeur napoleonica è un fenomeno che non finisce di stupire. È la parossistica celebrazione di un mito che nella Francia del primo Ottocento su tutto impresse la N dell’Imperatore. Dall’urbanistica all’architettura, dalla moda ai designer, dall’oggettistica all’editoria, come ben sanno i collezionisti di cimeli napoleonici. Tutto perché si alimentasse il mito del grande conquistatore, dispensatore di una civiltà nuova, leggi nuove, nuova politica.
LA MACCHINA
Per raggiungere lo scopo, Napoleone studiò con profitto diremmo oggi massmediologico, mettendo in moto una impressionante macchina del consenso. In questo seppe abilmente servirsi dei più influenti figli della Rivoluzione, degli intellettuali, i quali finirono per appoggiarlo ecco un altro aspetto della grandezza napoleonica nel suo disegno autoritario. Sant’Elena. Da questo scoglio accidentato e dalla nessuna economia, s’irradia una leggenda, un mito che potremmo definire dell’azzardo, perché Napoleone con la guerra (e potremmo anche dire con il potere) fece quello che i veri giocatori fanno nello scommettere. Puntò al rialzo, sempre di più, fino all’inevitabile sconfitta. «Due volte nella polvere, due volte sull’altar».