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 2021  maggio 03 Lunedì calendario

Intervista a Lucia Lavia

«Solo l’idea di avvertire di nuovo il respiro del pubblico, di sentirne gli applausi, mi fa venire i brividi di gioia: è dall’estate scorsa che non vivo questo contatto diretto e non provo più un’emozione del genere». Lucia Lavia la proverà a breve, perché dal 4 al 30 maggio è la protagonista femminile di un magmatico spettacolo, anzi, di due in uno: Guerra e pace di Lev Tolstoj, riscrittura di Letizia Russo, con la regia di Andrea Baracco, al teatro Morlacchi di Perugia che, in collaborazione con la Fondazione Cucinelli, riapre dopo mesi.
«Dall’opera originale – dice l’attrice – sono stati ripresi il primo e il secondo libro, creando due rappresentazioni di 2 ore ciascuna: sarà possibile vederle separatamente oppure una di seguito all’altra. E per poter realizzare la messinscena al chiuso, il teatro è stato rivoluzionato: palcoscenico e platea diventano un tutt’uno, mentre gli spettatori saranno collocati sui palchi laterali. La cosa strana è che ci troveremo in una sorta di arena, dove non c’è la rituale quarta parete: siamo dentro e non di fronte al pubblico».
Lei impersona Nataša Rostova, che dall’autore russo viene definita «polvere da sparo». Perché?
«Perché è una forza della natura, entra in scena con energia, con una vitalità incontenibile, con risate che squarciano l’aria e poi, però, precipita nei fatti della vita senza pensarci, senza analizzare: non pensa, agisce e basta. Incarna l’anima uterina della Russia e finirà vittima della sua fame di esistere».
Quando ha iniziato a lavorare al personaggio?
«Posso dire di aver iniziato a 16 anni. Fu allora che lessi per la prima volta il romanzo e, in quel periodo, tenevo un diario in cui scrivevo che in Nataša c’è qualcosa di mistico, che si distacca divinamente dalle cose terrene e ti commuove fino alle lacrime. Non potevo certo prevedere, a quell’epoca, che un giorno l’avrei interpretata».
Eppure lei ha iniziato a recitare a 13 anni con mamma Monica Guerritore... e poi con papà Gabriele Lavia...
«Dicevo poche battute, impersonando Teresa d’Avila da giovanissima. Comunque mi sentivo una teatrante sin da quando, piccolissima, seguivo i miei genitori, da dietro le quinte, mentre recitavano. Quando entravo in una sala, sentivo che quello era il mio destino, mi dicevo: è qui che devo stare».
E non ha avuto bisogno di frequentare un’accademia, una scuola di recitazione...
«Che ci andavo a fare? L’accademia ce l’avevo in casa, ho imparato tutto da loro. Mia madre mi ha insegnato a leggere, come si deve, un copione, a entrare nell’analisi delle battute, della frase da pronunciare. Papà, a gestire il corpo, a utilizzare la voce, a muovere gli occhi... e quando mi trovo in scena, anche se lui non c’è, penso solo a quello che potrebbe suggerirmi».
Chi dei due l’insegnante più esigente?
«In privato, l’educatrice più dura è stata mamma. Nel lavoro, ovviamente papà nel suo ruolo di regista: lui può arrivare a urlare durante le prove, però senza mai sminuirti, demoralizzarti, per tirar fuori il massimo dalla tua interpretazione».
Nella professione ha avuto la strada spianata. Si sente una privilegiata?
«Essere “figlia di” ha i suoi pro e i suoi contro. Sono molto diversa da Monica e Gabriele: loro, come attori, sono decisamente più mattatori, protagonisti assoluti, mentre io sono più empatica, accogliente, mi metto in ascolto degli altri, loro lo fanno meno. Inoltre ormai da qualche anno, mi sto staccando dalla mia famigliona teatrale, sto costruendo un mio percorso che è faticoso».
L’anima che ora regala a Nataša. Un personaggio che ha un memorabile precedente al cinema con Audrey Hepburn nel film di King Vidor.
«Vidi quel capolavoro tanti anni fa in tv. Ma non ho voluto rivederlo: quando preparo un mio spettacolo preferisco non guardare i precedenti, per avere una mia visione più libera, per andare oltre».