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 2021  maggio 03 Lunedì calendario

Un’inchiesta sull’idrogeno

L’Unione europea include l’idrogeno fra le tappe necessarie per arrivare a zero emissioni di carbonio nel 2050. Ed è partita la grande corsa per produrlo. Proviamo a capire bene come funziona. La rivoluzione verde e la transizione ecologica pensate dal governo Draghi valgono 59,33 miliardi di euro. Di questi, 23,7 saranno destinati all’incremento della filiera delle energie rinnovabili in agricoltura, alla promozione di impianti innovativi (anche offshore), al trasporto locale sostenibile, alla dotazione di accumulatori per stoccare l’energia in eccesso, e alla rete intelligente per gestire i flussi energetici. Dentro c’è anche il progetto «idrogeno» che assorbe 3,19 miliardi. Nello specifico: 2 miliardi per la riconversione a forni elettrici delle imprese energivore (acciaierie, industrie metalmeccaniche etc), 160 milioni per la ricerca, 500 per la produzione di idrogeno in aree industriali, 530 per la sperimentazione nel trasporto stradale e o ferroviario. Poi ci sono altri 450 milioni a parte che andranno a finanziare lo sviluppo tecnologico.
Quale idrogeno si produce oggi
Le cose però non sono così semplici perché l’idrogeno non è disponibile in natura: per ricavarlo va staccato dalle molecole cui è combinato, come nell’acqua e nel metano, e lo si fa con processi industriali che consumano tanta energia. Poi va trasportato: per renderlo liquido va raffreddato a -250°, a livello gassoso va sottoposto a pressioni fino a 700 atmosfere e il suo confinamento in solidi porosi è ancora in via sperimentale. Oggi nel mondo si producono 73,9 milioni di tonnellate di idrogeno. Il 96% arriva da combustibili fossili, si chiama «idrogeno grigio», e per farlo si utilizza come materia principalmente il metano, ma anche il petrolio e il carbone. Un processo che libera 9 chilogrammi di CO2 ogni chilogrammo prodotto, ed è quindi incompatibile con gli obiettivi di emissioni zero. L’industria petrolifera spinge per l’idrogeno blu: il processo è lo stesso di quello grigio, ma la CO2 prodotta verrebbe catturata e stoccata nei giacimenti esausti di petrolio e gas. Su questa tecnologia sono stati investiti nel mondo molti soldi, con risultati deludenti. C’è l’esperimento della Norvegia, che utilizza un giacimento esausto di gas per stoccare CO2 nel mezzo del mare del Nord. È quello che vorrebbe fare l’Eni nel suo giacimento di metano esausto di fronte a Ravenna. Ma utilizzare combustibile fossile per trasformarlo in idrogeno, e sotterrare la CO2 prodotta, richiede una enorme quantità di energia. Il vantaggio per l’industria però è un altro. Per spremere dai giacimenti fino all’ultima goccia di petrolio, oggi si iniettano liquidi e vari gas; domani si potrebbe spingere dentro solo la CO2 prodotta facendo idrogeno. Problema: l’anidride carbonica una volta sotterrata diventa liquida, e poiché parliamo di volumi enormi, secondo il Cnr occorre valutare attentamente il rischio sismico.
L’idrogeno buono è verde
L’unico idrogeno a zero emissioni è quello «verde», perché la materia prima utilizzata è l’acqua e l’energia per produrlo è elettrica e può provenire da fonti rinnovabili. Oggi rappresenta solo il 4% della produzione dell’ idrogeno mondiale. Le ragioni sono almeno tre: 1) non abbiamo energia rinnovabile sufficiente per farlo, per avere un positivo impatto ambientale dobbiamo aumentare di 80 volte la produzione mondiale; 2) con la tecnologia di oggi non siamo in grado di farlo su scala industriale; 3) il costo: dai 4 ai 6 euro per un chilogrammo di idrogeno verde, contro l’1,5 di quello grigio. Per quello blu si stimano 2 euro. Il verde quindi ora è fuori mercato. La Commissione europea, però, prevede che con l’aumento della produzione il costo degli elettrolizzatori, i macchinari per produrre idrogeno dall’acqua, si abbasserà fino a diventare, nel 2040, competitivo (2 € al chilogrammo), consentendo negli anni successivi di sostituire con idrogeno il combustibile fossile nell’industria pesante, e nel traporto come camion, navi, treni, e forse aerei.
La grande scommessa
L’idrogeno verde dunque dovrebbe essere uno dei pilastri per un futuro decarbonizzato: può essere bruciato come il metano, oppure convertito in energia elettrica con le celle a combustibile, dove si produce solo vapore acqueo. Per questo la Commissione l’8 luglio 2020 ha definito una strategia operativa con un massiccio piano di investimenti. La produzione di idrogeno verde dovrà passare in 30 anni dal 2% al 14% in tre tappe: 1) entro il 2024 un milione di tonnellate prodotte; 2) entro il 2030 dieci milioni di tonnellate; 3) entro il 2050 un quarto delle rinnovabili generate servirà a produrre idrogeno verde da utilizzare su larga scala. Ma secondo i calcoli del Cnr non andremo oltre le 700 mila tonnellate al 2024 e ai 4,5 milioni al 2030. Ma per arrivarci occorre, entro il 2030, aumentare al 32% la quota di energia da fonti rinnovabili negli usi finali, tagliare i consumi di energia primaria del 32,5% e aumentare l’interconnessione di almeno il 15% dei sistemi elettrici dell’Ue. L’insieme di tutti questi processi trascina anche il rilancio dell’economia: 5 milioni di posti di lavoro secondo McKinsey (di cui 540 mila in Italia – Forum Ambrosetti) per un volume d’affari nel mondo, secondo Bank of America e Goldman&Sachs, di 11/12 mila miliardi di dollari nel 2050.
Le potenzialità dell’Italia
In sostanza per arrivare a una produzione di elettricità in eccesso rispetto ai fabbisogni elettrici occorre costruire reti integrate e intelligenti, e aumentare drammaticamente la produzione di rinnovabile. L’Italia era partita bene, ma poi abbiamo rallentato: produciamo ancora il 45% dell’elettricità con il gas. Nel resto del mondo nel 2020 è stato record di crescita per le rinnovabili, scrive la Iea nel suo rapporto, e boccia l’Italia che sta avanzando di un solo gigawatt in più all’anno: vuol dire che agli obiettivi da raggiungere nel 2030 ci arriveremo nel 2085. Intanto Snam, Saipem e Italgas sono tutti entusiasti ai blocchi di partenza. Hanno firmato accordi, protocolli, stilato progetti. Ma di concreto ancora nulla.
Il caso Sardegna
In compenso in Sardegna, regione solare e ventosa adatta quindi ad un incremento di impianti per la produzione di rinnovabili, si stanno piazzando tubi del gas. Il progetto di metanizzazione dell’isola, che ha ancora due centrali a carbone attive, è vecchio di anni, ma lo stiamo realizzando adesso, sapendo che ci vogliono 50 anni per ammortizzarlo e che fra 30 anni potrebbe non servire più. Ma un giorno potrà passarci l’idrogeno, dicono Snam e Italgas. Chissà se andranno bene un giorno quei tubi e quelle valvole. Intanto l’Arera non solo ha detto che la migliore soluzione dal punto di vista costi-benefici è quella del trasportare sull’isola il metano liquefatto con navi spola e poi distribuirlo via gomma, ma ha anche bocciato il piano di metanizzazione presentato da Enura, la joint venture tra Snam e Società Gasdotti Italia. In Olanda dal 2018 per legge è vietato posare nuovi tubi. In Gran Bretagna dal 2025 nelle case non si dovranno più installare boiler a gas. In Germania da quest’anno chi utilizza il gas in casa deve pagare una tassa che servirà a finanziare la transizione verso l’elettrico. In buona parte della California è vietato l’utilizzo del gas negli edifici nuovi. Sul punto l’Agenzia Internazionale per le Rinnovabili ha detto espressamente: il potenziale passaggio all’idrogeno non deve essere usato come giustificazione per costruire ora nuovi gasdotti, con la scusa che possano servire per il gas verde nel futuro.