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 2021  maggio 03 Lunedì calendario

Intervista a Roberto Cingolani


Ministro, lei quest’anno presiede il G20 Ambiente e la Cop26 per la riduzione delle emissioni nel mondo. Come si presentano i negoziati?
«C’è grande consapevolezza delle sfide – risponde Roberto Cingolani, responsabile della Transizione ecologica —. Va ridotta la CO2, perché crea una coltre che fa sì che la Terra, in sostanza, si comporti come un’auto al sole che si surriscalda. Bisogna evitare che la temperatura media aumenti di più di 1,5 o 2 gradi entro fine secolo. E questo non risolve il problema, lo mitiga. Se ci va bene, blocchiamo la situazione com’è. In Europa e in Italia ci siamo impegnati ad abbattere le emissioni entro il 2025, ridurle entro il 2030 del 55% sui livelli del 1990 e arrivare alla completa decarbonizzazione nel 2050».
L’Europa rappresenta poco più del 9% delle emissioni globali. Basterà?
«Stiamo facendo un enorme sforzo tecnologico, produttivo, sociale. E supponiamo di essere del tutto decarbonizzati tra 30 anni. Basta che le grandi economie emergenti abbiano una piccola deviazione dalla loro traiettoria e il nostro 9% si vanifica».
La Cina e gli altri emergenti diranno: «Voi emettere CO2 da due secoli, noi da quarant’anni. Ora tocca a noi».
«È comprensibile, tuttavia la decarbonizzazione è uno sforzo collettivo a cui non tutti partecipano con la stessa intensità. Dobbiamo arrivare a un obiettivo condiviso, ma da punti di partenza oggi diversi. Per l’Italia e per l’Europa la transizione è meno difficile, perché partiamo da una buona base. Ma alternative non ce ne sono, per nessuno».
L’Italia è impegnata a passare da 428 milioni di tonnellate di CO2 all’anno a zero entro il 2050. Giappone, Cina, Sud Corea, Usa hanno impegni meno stringenti. Non sarà a costo zero per noi…
«No, il costo è elevatissimo».
Il mondo produttivo teme di avere una palla al piede. Sbaglia?
«Non abbiamo alternative: nessuno nel mondo ne ha. Non ci possiamo permettere un ulteriore degrado delle condizioni del clima, delle acque, del suolo. Le crisi sanitarie globali e gli eventi climatici estremi diventano sempre più frequenti».
Ma i cinesi e gli altri governi asiatici accettano di fare la loro parte?
«La Cina sta sviluppando le batterie elettriche e ha cominciato a fare promesse interessanti, con l’obiettivo di emissioni zero nel 2060. Ma altri Paesi dell’Asia orientale e del Sudamerica reclamano il loro diritto di crescere, mentre tanti Paesi in via di sviluppo non hanno una politica ambientale. Vanno aiutati».
Anche con forti trasferimenti finanziari?
«Lo abbiamo promesso, dovremo farlo. Dal G20 e dal Cop26 non mi aspetto svolte radicali. Ma ci sarà un lento avvicinamento».
Lei sta stilando il piano per il ministero della Transizione ecologica. Cosa ci sarà?
«I nostri obiettivi sulle emissioni comportano una trasformazione anche sociale. Ovviamente sono possibili aggiustamenti, se cambiano le condizioni. Ma con il Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr, o Recovery, ndr) abbiamo cinque anni per partire lanciati in questa corsa che durerà trent’anni e sappiamo cosa vogliamo: nuove infrastrutture, mobilità elettrica, protezione del territorio, acqua, natura, mari. Prendiamo l’idrogeno. Vogliamo una società in cui i mezzi di trasporto o le acciaierie usino idrogeno verde, da energia rinnovabile».
Mini nucleare
Se Bruxelles accettasse
il nucleare come energia rinnovabile cambierebbe
lo scenario competitivo. Allora valuteremmo
il da farsi.
Come ci si arriva?
«Installando entro il 2030 settanta Gigawatt di potenza per la produzione di rinnovabili».
Quanti ne stiamo installando all’anno, per ora?
«L’obiettivo è di 6, ma finora ne abbiamo installati 0,8. Così ci mettiamo novant’anni, non nove».
Come si risolve?
«Stiamo costruendo una legge di accelerazione, più che semplificazione, del Pnrr. Senza quella, non c’è niente. Ma il ministero della Transizione ecologica dovrà anche dotarsi di una componente tecnica e di una internazionale capaci, che durino oltre il mio mandato, per seguire lo sviluppo dei progetti. E quando il governo ogni anno farà la legge di bilancio, il ministero dovrà poter bollinare in maniera vincolante la sostenibilità ambientale di ogni misura. In futuro ci verrà richiesto, se dobbiamo convincere i mercati a investire nel nostro debito. Ma ora la cosa più urgente è cambiare le procedure autorizzative».
Come valuta il modello Genova?
«Ha funzionato, quindi va analizzato bene. Capisco chi dice che quella era una procedura d’emergenza e non si può gestire così un piano di cinque anni come il Recovery. La Commissione Ue ci dà tempi certi, con il rischio di perdere i soldi se non li spendiamo. Ed è a partire da lì che possiamo pensare a un nuovo sistema stabile, competitivo, che duri anche dopo i cinque anni del Pnrr. Se poi non dovessimo riuscire, allora possiamo passare a piani di emergenza sul modello Genova».
Pensa a procedure con tempi certi di autorizzazione?
«Sì. E a un certo punto si può iniziare a calcolare il costo dei ritardi, se tutto si blocca, perché la perdita di tempo rappresenta un danno all’erario esattamente come lo è fare male un’opera. È troppo comodo bloccare una procedura per mille o duemila giorni, pur di non rischiare. Così si paralizza tutto. Se qualcuno crede che i ritardi non siano un costo, perdiamo decine di miliardi. Questo è danno erariale o no?».
Poi però gli enti non vogliono i parchi eolici nei loro territori...
«Ci vuole consapevolezza. Tutti gridano al cambio climatico e vogliono che siano prese misure al più presto, ma non molti rinunciano a qualcosa. Poiché dobbiamo installare rinnovabili a questa intensità, è inevitabile che ci sia un po’ di impatto sul sistema e sul paesaggio. Si cercherà di fare al meglio, ma se non lo facciamo potrebbe non esserci più un paesaggio da tutelare. Non ci sono soluzioni facili. Tutti devono capire che la sostenibilità ha dei costi, non solo economici. Alcune strutture magari non saranno bellissime. Ma se si rifiutano la cattura delle emissioni, il nucleare, l’idrogeno da metano perché produce troppa CO2, alla fine un’altra risposta va trovata».
Dunque niente soluzioni a costo zero?
«Esatto. Anche perché credo che nessuno sia così folle da pensare che la risposta sia la decrescita. Non si può chiedere alle persone di perdere il lavoro perché tutto dev’essere verde. La sostenibilità è sempre un compromesso, non può essere un valore assoluto. Dunque deve mediare fra istanze diverse. È illusorio pensare che esista un’unica soluzione automatica».
La Francia punta ai reattori nucleari da 340 Megawatt piccoli come container, che Bruxelles valuta di ammettere fra i progetti verdi.
Il costo
Cambiare costa, ma non ci possiamo permettere un ulteriore degrado dell’ambiente. Eventi estremi e crisi sanitarie sempre più frequenti
«Questa decisione potrebbe cambiare le strategie di molti Paesi. Se cambierà la definizione stessa di energia rinnovabile, lo scenario competitivo fra economie europee cambia. Se succederà davvero, valuteremo il da farsi».