la Repubblica, 3 maggio 2021
Intervista a Filippo Meneghetti (che ha fatto il cameriere a New York, il gelataio a Parigi, la guida turistica al Colosseo a Roma)
L’italiano candidato all’Oscar che con il film “Due” ha raggiunto il successo in Francia
di Arianna Finos Quello di Due di Filippo Meneghetti, premiato ai César, scelto per rappresentare la Francia agli Oscar e candidato ai Golden Globe, è stato un lungo viaggio: arrivato in Italia, il regista ha presentato in anteprima il suo debutto registrando, a Milano e a Padova, il tutto esaurito, mentre stasera l’appuntamento è al Nuovo Sacher di Nanni Moretti (il 5 sarà all’Eden, poi a Bologna, Treviso e Firenze, per uscire in sala il 6 con Teodora). «Ho vissuto dieci anni a Roma e una delle grandi emozioni è stato vedere proprio al Sacher Aurora di Murnau. Mi colpisce essere ospite di Moretti». Il film è la storia d’amore tra due donne mature. Nina e Madeleine (Barbara Sukowa e Martine Chevallier) sono vicine e quando la routine viene interrotta da un evento improvviso la famiglia di Madeleine scopre che le due si amano.
Perché è andato in Francia per fare il regista?
«Mi sono trasferito per seguire la mia compagna; un po’ come uno dei personaggi di Due, per amore. Gli inizi sono stati duri, non parlavo francese. A questa scelta ha contribuito il fatto che in Francia ci sia un sistema di finanziamento del cinema importante e un’industria che produce molti film ogni anno.
Nel mio caso ho incontrato dei produttori che, dopo aver visto il mio primo corto girato in Italia, hanno investito nel mio lavoro e sviluppare un lungometraggio».
Quando e come è nata l’idea del film?
«La gestazione è stata lunga. La prima idea, nata una decina di anni fa, era di rendere omaggio a due persone che sono state importanti nella mia formazione, dandomi i vhs dei film che mi hanno fatto conoscere il cinema che amo. La storia è frutto di fantasia ma è vero che queste persone avevano vissuto una storia ostica di cui fui testimone nell’adolescenza. Ho continuato a pensarci per anni e ho capito che volevo raccontare questa storia di autocensura di esclusione. Ho cercato una prospettiva adeguata e l’ho trovata andando a trovare un amico: c’erano due vicine, vedove, che vivevano in case separate da un pianerottolo che erano diventate un’unica abitazione. Ho costruito questa storia di esclusione attorno a questa sorta di dispositivo architettonico, con la loro dimensione claustrofobica. Per mettere a punto la storia ci sono voluti cinque anni, in cui ho lavorato con Malysone Bovorasmy».
Cosa ha pensato quando lo hanno scelto per gli Oscar?
«Ero stupito: è una bella dimostrazione di apertura del cinema francese ed europeo.
Qualche giorno prima, quando è stata annunciata la cinquina della preselezione, non mi aspettavo di essere convocato. Poi mi ha chiamato il produttore e dal tono emozionato ho capito che non stava scherzando».
Qual è stato il momento finora?
«Quando ho dovuto trovare i finanziamenti. Perché quando giri, anche se con pochi mezzi, sai che il film un giorno esisterà. Invece è dura lavorare senza sapere se la storia vedrà la luce. Ci sono stati altri lavori che non sono riuscito a fare e mi sono rimasti dentro».
Quando ha capito di volere fare il regista?
«Non vengo da una famiglia di appassionati, è stato un incontro adolescenziale che mi ha avvicinato ai grandi registi. Ho capito che si potevano fare cose bellissime, si è aperta una porta nella mia testa, o nella mia anima. Sono andato avanti con incoscienza e ho sempre trovato la forza di andare avanti e imparando da ogni situazione. Il cinema è diventato una sorta di ossessione».
Come è riuscito a mantenersi?
«Facendo ogni tipo di lavoro, a Padova, Roma, New York, dove ho studiato cinema mettendomi al servizio gratuito dei set, grato di essere chiamato alle 5 del mattino per scaricare i camion del set. Ho fatto il cameriere a New York, il gelataio a Parigi, la guida turistica al Colosseo a Roma. Gli studi? Cinema e antropologia all’università».
C’è qualcosa che le hanno detto che l’ha colpita particolarmente?
«Sì, in Francia, dopo una proiezione in provincia: in una mail una signora diceva di non amare le storie di gay ma che, dopo aver accompagnato un’amica a vedere il film, alla fine aveva sentito le due donne come sue sorelle, aveva sentito le loro emozioni. L’idea che anche solo una persona possa provare un’esperienza diversa, che non riteneva possibile, grazie al mio film, meraviglioso».
Sta già lavorando a un altro film?
«Promuovere Due nei Festival e nella campagna per gli Oscar è stato un lavoro a tempo pieno. Di certo voglio lavorare con gli stessi produttori, che mi hanno sostenuto malgrado le numerose difficoltà. Due è stato difficile da fare e ha rischiato di non vedere la luce. Di certo ho tantissime storie da raccontare».