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 2021  maggio 01 Sabato calendario

Su "Scusate il disturbo" di Richard Ford (Feltrinelli)

Nei nove racconti che compongono il nuovo libro di Richard Ford c’è un crepuscolo talmente tenace da far dubitare dell’esistenza della notte. Fin dal titolo, che è un titolo di cortesia (Sorry for your trouble, tradotto da Vincenzo Mantovani in Scusate il disturbo), fin dalle prime righe del primo racconto, anch’esso con un titolo di cortesia («Niente da dichiarare»), si respira un’aria di commiato che sembra preludere a un distacco: dimesso, certo, molto educato e quasi dolce, ma definitivo. E invece, il distacco non arriva, e il commiato diventa una forma di sua negazione permanente — di negazione della fine.

Richard Ford è un maestro, su questo non ci sono dubbi. È uno di quegli scrittori universali che l’America ha prodotto nella seconda metà del secolo scorso — e che solo di quel secolo sono figli. Lui, Roth, DeLillo, Pynchon, fino a David Foster Wallace, con tutte le differenze del caso, che non staremo nemmeno ad accennare, sono scrittori che hanno esaltato il punto di vista americano sul mondo, e così facendo, dato il ruolo assolutamente preminente conquistato dagli Stati Uniti proprio nel secolo scorso, e soprattutto nella sua seconda metà, si può dire siano stati, e siano ancora, il diapason sul quale va accordato qualunque strumento con cui s’intenda, quel mondo, e quel secolo, interpretarli. Sotto di loro preme la sterminata cultura pop, che in parte li ha anche nutriti, e che poi si è ripresa tutto quanto con gli interessi, spolpando le loro opere tema a tema, col cinema, la musica, le serie Tv, i documentari, i podcast, internet. Sopra di loro, nulla. Nulla di relativo al loro tempo, del quale essi rappresentano in effetti il punto più alto. Sopra di loro, in realtà, c’è solo il cielo pieno di movimento della grande letteratura.

Questo vale per ognuno di loro — ripeto, mutatis mutandis — e soprattutto vale per le opere di commiato che ognuno di loro ha scritto, ma in particolar modo vale per Ford che tra essi, tra i maestri americani, è di sicuro il meno perentorio, il meno volitivo e inevitabile — quello che se fosse stato giovane in un altro tempo, per esempio questo, avrebbe fatto molta più fatica a vedere riconosciuto il proprio talento. Per questo, tra i figli di quel tempo che sta finendo insieme a loro, Richard Ford è forse quello che più lo rappresenta — fin quasi a incarnarlo. E dunque, tornando a Scusate il disturbo, se il crepuscolo che contiene è così tenace da non lasciare il passo alla notte, possiamo ben pensare che questo sia anche il sentimento che Ford distilla dal declino della nostra civiltà, e che riguarda per l’appunto tutti coloro che vivono nel suo tempo: finire non significa finire; finire significa prepararsi a finire, essere pronti. Significa rimanere attaccati alla propria fine, a oltranza; significa non smettere di finire.

C’è un chiaro segno della natura testamentaria di questi racconti: il fatto che le storie si raggrumino tutte e nove intorno ad alcuni punti comuni. L’Irlanda e l’irlandesità; il Canada; il mestiere di avvocato e quello di agente immobiliare; il Maine e New Orleans.

Ognuno di questi punti è intimamente legato all’idea di inizio, per Ford — l’idea che viene in mente più di ogni altra, quando si affronta il tema della fine: il Maine è il luogo di residenza scelto da Ford ormai da molti anni, a East Boothbay, in cima a quel New England così minuziosamente percorso e descritto in molti suoi romanzi, mentre New Orleans è la sua città elettiva, dove ha vissuto molti anni prima di ricominciare una nuova vita proprio nel Maine. Gli agenti immobiliari (anzi, in questi racconti le agenti immobiliari) sono l’impronta di Frank Bascombe, il giornalista sportivo trasformatosi per l’appunto in mediatore immobiliare dopo la tragedia che lo colpisce nel primo dei quattro romanzi di cui è protagonista, e sono anche l’impronta dell’intuito di Ford, che in anni non sospetti (gli anni 90 e tutti i primi anni 00) ha compreso che era proprio in quel frenetico comprare e vender case degli americani che si nascondeva il primo grande mostro che avrebbe aggredito il sistema, cioè lo scoppio della bolla che ha portato alla grande recessione del 2008; mentre gli avvocati, be’ in America sono il buco del lavandino, finisce tutto lì, e non è proprio possibile raccontare la decadenza della middle class senza ritrarre loro, gli avvocati, che ci sguazzano dentro. Il Canada perché nel suo invertire il punto di vista («quello che per gli americani era il nord, per i canadesi era il sud»), è lo specchio opaco nel quale prima o poi ogni americano finisce per riflettersi; e perché in questa sua funzione è stato già meravigliosamente raccontato nel romanzo intitolato per l’appunto Canada, del 2012; e infine perché è stato anch’esso costantemente presente nella vita di Ford, che dovunque risiedesse o risieda, a New Orleans in passato come oggi nel Maine, non ha mai rinunciato a trascorrere parte dell’inverno nel Montana, sotto la quotidiana tentazione di tirare lungo sull’autostrada, passare il confine e diventare un uomo nuovo.

La caratteristica però più ricorrente, tra i personaggi e gli scenari ritratti in questo libro, è l’Irlanda — e questa è una novità. Vado a memoria ma non mi pare di ricordare tanta Irlanda, prima, nei libri di Ford. La sua esplosione (è veramente presente in tutti i racconti, il sangue irlandese, il richiamo dell’Irlanda, l’Irlanda stessa, dove due racconti sono interamente ambientati) ha forse a che fare col libro precedente pubblicato da Ford, il memoir Tra loro (2017), interamente incentrato sulla storia d’amore tra i suoi genitori — l’inizio degli inizi, quello che l’ha fatto venire al mondo. Lì si scopriva l’ascendenza irlandese del ramo paterno della sua famiglia, lì si disseppelliva l’Irlanda come sostanza originaria, peraltro in sordina, senza nessuna enfasi particolare. Enfasi che invece pervade tutti questi racconti, nei quali, proprio perché portano a un passo dalla fine, il mito dell’origine assume grande importanza.

A un passo dalla fine, sì. Ogni racconto a suo modo, in un rimescolarsi di uomini e donne di mezza età, figli grandi e lontani, vedovanze, divorzi e secondi matrimoni, trascina ogni cosa, personaggi e scenari, a un passo dalla fine: ma quel passo non viene mai compiuto. Non solo: è talmente insistito questo non compierlo mai che col passare delle pagine non viene più nemmeno concepito, e quella fine cui tutto sembra inesorabilmente tendere, come nei racconti di Cheever, scompare dall’orizzonte.

Poi, certo, c’è lo stile. La tersa bellezza del giro di frase che mentre si carica di aggettivi e di subordinate si alleggerisce di affanni e afflizioni — la cifra della tetralogia di Frank Bascombe —, ma adesso anche, agguantata così saldamente l’Irlanda, l’abbandono dell’America, l’egira verso Dublino, la rottura dei vincoli tribali con i suoi connazionali e il riconoscimento con i due più grandi scrittori del ventesimo secolo — entrambi, per l’appunto, irlandesi.

Con Beckett è un riconoscimento tematico dichiarato, molto utile per comprendere ancora meglio il concetto di immanenza che si sprigiona dall’ultimo passo non fatto, di cui si è appena parlato: è un dentista (irlandese, a New Orleans), a nominarlo mentre si produce col protagonista (avvocato) in un bislacco monologo sulla sindrome dell’arto fantasma: «Una perdita diventa la propria presenza fondamentale, che è l’essenza di Beckett, se non ti secca che il tuo dentista sia un lettore». Ecco fatto. Ecco spiegato in due righe, a metà del terz’ultimo racconto («Partendo per Kenosha»), il gioco di prestigio che rende questo libro così orientato verso assenza, perdita, e distacco, una specie di strabiliante — alla fine, ma davvero — inno alla vita.

Con Joyce invece si tratta proprio di un abbraccio stilistico, soprattutto con Dubliners: l’infinita delicatezza con cui viene maneggiata la superficie della vita, così fragile, così indifesa; l’irruzione di un particolare fuori-scala, troppo veloce, o troppo grande, o troppo lungo, o troppo a fuoco, e la fine all’improvviso è lì, a un passo: il respiro si ferma, si produce quel silenzio formidabile (da sentire il rumore della neve che cade, come alla fine di The Dead), ma per una specie di miracolo è proprio l’elemento che ha causato la rottura ad avviare il processo di risanamento. Un racconto, il più breve, intitolato «Una giornata libera», pare proprio un omaggio a Joyce, ambientato com’è a Dublino, imperniato com’è sulla quasi-fine di una donna quasi-innocente.

Altri, più lunghi, custodiscono sempre da qualche parte uno di quegli elementi fuori-scala — una crostata, un sospiro, o magari le macerie lasciate dall’uragano Katrina nei quartieri che, piuttosto che risanarli, gli abitanti hanno preferito abbandonare — ai quali sta attaccato il peso enorme e straziante del sopravvivere alla perdita. Due, infine, sono racconti per modo di dire (il modo di dire «racconto» proprio di The Dead, per l’appunto), cioè sono lunghi, dunque sono più che altro due novelle, e la scrittura di Ford vi si può distendere, e nel distendersi può intrecciare frase a frase il proprio consolidato magistero americano sull’eroismo e sull’attraversar frontiere con la sapienza joyciana sulle pose e sui silenzi, producendo risultati veramente alti.

Come nel capolavoro di Joyce la commozione sta lì, è il centro di gravità intorno al quale orbitano tutte le parole, ma è una commozione piena, secca, entusiasmante, più simile a quella che prende dinanzi ai paesaggi che a quella prodotta dalle vicende dell’uomo, quasi che ai primi — siano essi le spiagge sull’Oceano, le pianure innevate, il Quartiere Francese di New Orleans o la campagna irlandese che sfila dal finestrino del bus — venisse data più importanza che alle seconde: per giusto senso delle proporzioni, per protezione, per pietà. E il risultato è proprio questo non-accadere di ciò verso cui la narrazione sembrava dirigersi fin dal principio: il risultato è il non-distacco dopo il commiato, è la non-notte dopo il crepuscolo, è l’ultimo passo non fatto, il pianto che non sgorga. Ed è proprio Ford, il maestro, ad apporre su questo non-piangere il sigillo definitivo, con la frase forse più bella di tutto il libro, la più vera, la più commovente: «Nella maggior parte delle occasioni, quando piangevi scoprivi che avresti dovuto piangere prima».