Forse è così che ho letto Sud: con un senso di arcaica comprensione verso la terra di ieri, nutrita dal rispetto, non dal feticismo, per le radici. Un romanzo familiare ricco di intrecci che Fortunato ha sviluppato per dirci che c’è un sempre un momento nella vita per spiccare il volo. E poi ho letto Quelli che ami non muoiono, una sorprendente galleria di ritratti delle persone che Fortunato ha conosciuto e frequentato nei suoi anni romani e infine londinesi.
È così prezioso e necessario ricordare?
«Lo è se la memoria non è pura archeologia, ma presenza narrativa, motore per nuove storie».
Il filtro della letteratura?
«Ciascuno ha i propri paraocchi. Per me la letteratura ha sempre contato molto. Ma anche le persone che c’erano dietro».
Quando lo hai capito?
«Prestissimo, direi quasi in sintonia con la scoperta della mia omosessualità».
C’è una relazione tra le due vicende?
«Non necessariamente. Ricordo quando, abbastanza piccolo, assistetti a un documentario televisivo su Marcel Proust e intuii che lo scrittore era gay. La cosa veniva raccontata con una certa pruderie ma ne fui incuriosito e chiesi come regalo di compleanno la Recherche ».
Che età avevi?
«Soltanto 14 anni. Mi arrivarono sette volumi. Passai tutto il mese di agosto, al mare, in Calabria, la mia terra di origine, immerso in quella roba: a volte entusiasmandomi, altre annoiandomi. Arrivai stremato, alla fine, come se avessi affrontato la traversata del deserto. Non so quanto compresi di quel capolavoro, direi pochissimo. Ma ero fiero di essermi spinto, in un’età dove tutto è possibile, fin lassù, tra le guglie vertiginose di una magnifica e imponente cattedrale».
Sei calabrese di dove?
«Sono nato a Cirò, provengo da una famiglia della borghesia meridionale. Padre avvocato, nonno notaio. La parentela con Giustino Fortunato. Mia madre aveva radici ebraiche. Una sorella e due fratelli, tutti più grandi di me. Giunsi tardi e ciò ha comportato che considerassi i miei genitori come dei nonni. Ho avuto un’infanzia bizzarra e felice».
Bizzarra perché?
«Ho vissuto prevalentemente in mezzo agli adulti. E poi la scoperta della sostanziale diversità, assimilata senza drammi. Anche perché, non avendo termini di confronto mi sembrava di non urtare nessuna suscettibilità. Era un fatto mio, ancora allo stato nascente. Ebbi il primo innamoramento per un ragazzo più grande di me. Ma non sapevo dove collocare quel sentimento, quale forma dargli. Restò sepolto nel mio cuore».
Ne parlasti con i tuoi?
«No, per quanto liberali e aperti, non credo fosse un argomento da affrontare direttamente. Erano di una generazione molto distante dalla mia, si davano ancora del voi, e immagino l’imbarazzo che un franco colloquio avrebbe suscitato. Ho sempre avvertito il loro rispetto nei miei confronti. Non so dire invece dell’amore».
Che intendi?
«Il rispetto è un atteggiamento freddo, l’amore trascina, coinvolge, alza la temperatura. Papà e mamma sono sempre stati tiepidi. Come se dicessero: “Mario, la vita è tua e tue le scelte”. Ricordo quando comunicai a mio padre che non avrei voluto fare giurisprudenza, bensì filosofia, mi guardò senza insofferenza, né recriminazione e disse: “Ti condannerai ai piani bassi”. Fu tutto e qualche tempo dopo partii per Roma».
In che anno?
«Il 1977, l’anno in cui mi iscrissi a filosofia. Ero interessato all’estetica. Seguivo con passione le lezioni di Emilio Garroni. Detestavo invece Tullio De Mauro, grande storico della lingua, ma le sue lezioni si svolgevano alle 8.30 del mattino ed era obbligatoria le presenza. Mi piaceva la sfrontatezza di Lucio Colletti e alla fine mi laureai con Garroni con una tesi sull’estetica di Croce».
Pensavi anche tu di esserti condannato ai piani bassi?
«No, pensavo che quella laurea mi avrebbe dato molta più libertà. Tanto è vero che cominciai a lavorare per alcune testate giornalistiche. Prima perPanorama allora diretto da Carlo Rognoni, poi per Reporter, il quotidiano di Enrico Deaglio. Infine all’Espresso, fu il periodo più significativo. Dividevo la stanza con Giovanni Buttafava, un personaggio meraviglioso che conosceva perfettamente il russo. Scoprì lui Josif Brodskij».
Tu racconti che te lo presentò.
«Fu in una sera di pioggia che li incrociai. E forse per questo Brodskij ha per me il sapore freddo e malinconico dell’inverno. In seguito lo vidi ancora. E invidiavo la sua fortuna di aver conosciuto Achmatova e Auden. Quando vinse il Nobel, Brodskij invitò Giovanni a Stoccolma. Gli fece leggere il discorso della cerimonia e Giovanni gli corresse alcune righe iniziali. Erano come fratelli».
Se ne sono andati ad alcuni anni di distanza l’uno dall’altro.
«Giovanni morì improvvisamente in una afosa notte del luglio del 1990. Brodskij se ne andò sei anni dopo.
Da tempo viveva a New York. Sarei dovuto andare a trovarlo nel Village. Ma non feci in tempo. Mi restano i suoi versi e uno in particolare che ha dato il titolo al libro Quelli che ami non muoiono ».
Cosa è stato per te amare?
«Un’occasione per essere me stesso. Senza i veli dell’ipocrisia. Tra i difetti che posso avere non c’è quello di sentirmi escluso dal resto del mondo. Ho sempre vissuto le mie scelte senza la paura di dovermi pensare dalla parte sbagliata. Perché non ci sono parti giuste o sbagliate. Perché non mi sono mai sentito calato in una guerra santa. Come è accaduto ad altri».
A chi pensi?
«Penso a Pasolini: una persona di grande talento – anche se reputo i suoi romanzi non all’altezza della sua fama – ma terribilmente infelice. Con una spiccata vocazione al martirio».
Lo hai conosciuto?
«No, in compenso ho conosciuto bene la sua grande amica Laura Betti, con cui ho avuto un buon rapporto.
Era dispotica e generosa; matta in un modo divertente».
Meglio la stravaganza in letteratura o nella vita?
«Non ho conosciuto, almeno in Italia, scrittori stravaganti. Provocatori e goffi, sì. Non penso che la stravaganza sia un valore letterario. Uno che poteva sembrare stravagante fu Arbasino. In realtà, la sua lingua era iperletteraria: molto colta e ingenua quel tanto da ricordare le filastrocche. Non avendo inconscio, il suo “flusso” arrivava tutto dalla superficie delle cose che sperimentava».
Accennavi ai provocatori e ai goffi.
«Uno è stato Pier Vittorio Tondelli, goffo nel suo modo di essere privatamente sentimentale e provocatorio perché così stabilirono i critici, che videro nel suo stile molto sperimentalismo e nelle sue storie parecchia trasgressione. In realtà, Pier fu altro. Quando lessi Altri libertini non fui condizionato dal clamore del sequestro del libro, considerato osceno, ma dalla leggerezza romantica che percepivo nelle sue pagine.
Siamo stati per un periodo molto amici, forse ci faceva difetto una suscettibilità eccessiva».
Come hai vissuto la sua fine?
«Non bene. L’Aids è stato un animale aggressivo, spietato. Pier ne fu ghermito e lo sopportò con
un’apertura al sacro».
Intendi al religioso?
«Era cattolico e tenne per sé la sua malattia. Anzi si confidò solo con un sacerdote. Per il resto silenzio.
Credo che la malattia avesse accentuato il bisogno di sacro: stupore, tremore e una punta di mistero su cosa accadrà quando tutto sarà finito. C’eravamo un po’ persi di vista e ci ritrovammo verso la fine. Ricordo che mi raggiunse a Mykonos, nell’estate del 1991. Era smagrito, stanco. Ma si riprese in quelle settimane di vacanza. Quando rientrammo non lo rividi più. Tornò nella sua Correggio, accudito dai suoi. Morì in dicembre, a soli 36 anni. Quello fu un tempo terribile.
Quasi ogni mese cancellavo dall’agendina il nome di qualche amico. Ed è strano».
Cosa è strano?
«Sarebbe facilmente potuto accadere anche a me. Ho avuto un compagno che è morto per overdose. Un altro sieropositivo. E tutto questo mi ha spinto alla domanda che già si pose Primo Levi: perché loro e non io? Per molto tempo è stato il mio senso di colpa, da cui mi sono liberato grazie all’età e all’analisi».
Per quanto tempo sei stato in analisi?
«In quel periodo, davvero difficile, chiesi aiuto a un dottore di scuola freudiana ma di orientamento bioniano. Dopo un anno e mezzo interruppi. Passai un periodo tranquillo. Poi una sera accesi distrattamente la televisione. C’era un film in cui una donna andava a una seduta psicoanalitica. Di colpo mi salì un groppo alla gola e cominciai a piangere. Non riuscivo a smettere».
Ti eri identificato con quella donna?
«Non lo so, mi sembrava che quell’immagine, così involontaria, avesse rotto la diga dei sentimenti.
Piangevo senza ritegno. La mattina dopo chiamai il mio analista supplicandolo di riprendermi. Ricominciai l’analisi per altri otto anni».
Oggi come stai?
«Bene. Sono stati fondamentali i quattro anni in cui ho diretto l’istituto di cultura italiana a Londra. Forse nel periodo più stimolante».
Hai sempre pensato che saresti stato uno scrittore?
«Un po’ nasci con questo marchio. Ma non è stato facile. La mia prima e autorevole lettrice fu Natalia Ginzburg che stroncò quello che avevo scritto. Fu un giudizio severo ma non inappellabile. Non mi disse non sei adatto a fare lo scrittore. La delusione fu comunque cocente. Ma aveva ragione».
Ti sei mai pentito di aver stroncato qualcuno?
«Non mi sono perdonato di averlo fatto con Daniele Del Giudice, oltretutto un amico. In quel caso, ti confesso, agì il risentimento provocato da una questione legata al Premio Strega. Per ragioni di scuderia non prese in considerazione il mio romanzo e la cosa mi procurò pena e disappunto. Quando uscì un suo romanzo che l’editore voleva far concorrere allo Strega lo stroncai e lui lo ritirò. In seguito mi vergognai per quell’atto così meschino e ingeneroso. Poi Daniele si ammalò e questo acuì i miei sensi di colpa. Per me lui era stato una specie di fratello maggiore».
Come è possibile arrivare al punto in cui non capisci più l’altro?
«Non ho una risposta se non quella che coinvolge la nostra fragilità. Daniele era stato la mia guida letteraria su Roma. Attraverso lui ho conosciuto Giulio Einaudi che per me fu una specie di padre».
Non è che avesse proprio il physique du rôle.
«Hai ragione, ma verso la fine della sua vita scoprì affetti nuovi e intensi, che lo resero più disponibile. Gli devo tantissimo e in questo anno di immobilità forzata ho pensato spesso a lui, alla sua vivacità e alla saggezza che covava sotto i suoi capricci».
Accennavi a questo anno di abbondante inerzia.
Come lo hai vissuto?
«Per me, abituato a viaggiare, è stato duro. Nella stasi della mia campagna fuori Roma, dove vivo, ho pensato alla mia Calabria degli anni sessanta. All’orizzonte fisso dal quale sono evaso. Senza rimpianto né risentimento. Ma non voglio lamentarmi più di tanto, cerco solo di sciogliere le mie inquietudini, provando a non invecchiare troppo precocemente».