Professor Barbero, perché agli occhi dei contemporanei Napoleone incarnava lo “spirito della storia”?
«Quello tra Settecento e Ottocento fu un passaggio denso di violenti cambiamenti. Il vento impetuoso scaturito dalla Rivoluzione Francese era osteggiato da forze potentissime che ne rendevano incerto l’esito. Napoleone aveva in mano le chiavi del futuro. Tutto dipendeva da lui».
Prima rivoluzionario convinto, seguace di Robespierre. Poi imperatore per investitura divina. Chi era in realtà Bonaparte?
«Entrambe le cose. Non inseguì mai una coerenza ideologica, ma un concreto pragmatismo, al servizio di una fortissima ambizione personale».
Il legame del suo regime con la Rivoluzione non si spezzò mai.
«No, non poteva spezzarsi. Anche perché Napoleone non può fare a meno dell’esercito, agli occhi del quale era il portavoce di quella fiammata libertaria. E nonostante i tanti passi indietro — il ripudio del Terrore, la cancellazione delle feste più rappresentative, il Concordato con la Chiesa cattolica — gli edifici pubblici esibivano la scritta “Liberté, égalité, fraternité”. Almeno sul piano simbolico il legame restava integro».
E nella sostanza?
«Non c’era libertà di stampa né libertà di associazione: la bandiera libertaria era smentita dall’azione repressiva. Ma esisteva l’eguaglianza: la parità dei diritti civili sancita dal Codice Napoleonico. Questo è forse il lascito rivoluzionario più duraturo. Il suo fu un governo autoritario, poliziesco e militarista che però non faceva differenza tra un ebreo e un protestante o tra un aristocratico e un figlio del popolo: tutti erano eguali davanti alla legge. I privilegi restano ma non più legati alla nascita, com’era stato nell’ancien régime».
Sul piano amministrativo introdusse un’organizzazione fortemente centralizzata. Possiamo definirlo l’artefice dello Stato moderno?
«Per molti aspetti lo fu. Portò a termine il processo cominciato con la Rivoluzione, da cui era nata la necessità di un rimodellamento generale dopo aver fatto tabula rasa del passato. Napoleone costruì un apparato amministrativo razionale e accentrato, articolato intorno a un sistema capillare di prefetti, viceprefetti, sindaci, attraverso cui gli ordini si trasmettevano rapidamente dal centro alla periferia».
Napoleone era amato o temuto? Madame de Staël scrisse che i francesi lo consideravano il “male minore”.
«Era un’avversaria e quindi non ci si può fare affidamento.
Napoleone era amato ed era anche impopolare, soprattutto nella Francia del Sud. Ma il mito della gloire contagiò i più giovani cresciuti a scuola con i racconti delle cariche delle cavallerie e delle guerre vinte».
Come riuscì a costruire il consenso?
«Ebbe un’intuizione geniale. Sapeva che solo chi non ha niente da perdere può cedere all’istinto ribellistico.
Riconoscendo il diritto di proprietà, creò una classe di proprietari terrieri che gli avrebbe garantito stabilità. Da una parte un notabilato ricco e fedele; dall’altra gli ex contadini a cui è consentito acquistare un piccolo appezzamento di terra. Da classe rivoluzionaria, la borghesia divenne un ceto proteso a conservare le proprietà e gli onori acquisiti».
Era molto attento agli umori dell’opinione pubblica. E costruì il mito di se stesso. Anche in questo c’è un forte elemento di modernità.
«Fu un formidabile manipolatore dell’opinione pubblica e comprese l’importanza dei giornali che infatti erano sottoposti a una rigida sorveglianza. Disponeva anche della gazzetta ufficiale, Le Moniteur, distribuita gratuitamente nelle scuole e nell’esercito: ad essa veniva affidata la verità certificata. Ogni sera controllava le notizie. Qualche volta dettava pure gli articoli. In fondo anche Napoleone fu un giornalista ante litteram, prima di Cavour e di Mussolini».
Quale fu il suo rapporto con l’Italia?
«Si fece incoronare Re d’Italia e coniò i marenghi d’oro con le scritte in italiano. Ma era un’operazione di facciata, dietro la quale si nascondeva il disegno di asservire il nostro Paese alla Francia annettendone ampie regioni. Questo non impedì a molti giovani italiani di subirne il carisma. E pur nella consapevolezza della natura tirannica, anche Foscolo e Manzoni soggiacquero al suo fascino».
Napoleone introdusse un’uniformità legislativa nei paesi conquistati. E ne beneficiò anche l’Italia, che
avrebbe costruito il nuovo Stato unitario sul modello francese.
«Sì, nel corso dell’Ottocento l’Italia risorgimentale ha continuato a guardare alla Francia sul piano amministrativo e per la struttura dell’esercito. Tanti giovani patrioti avevano fatto le loro prime prove nelle battaglie napoleoniche. E la stessa nostra bandiera fu una versione modificata del tricolore francese».
A suo modo inseguì l’idea di un’Europa unita, seppure sotto l’egemonia francese?
«Su questo sarei più prudente: in linea teorica sì, stando a quel che scrisse nel Memoriale di Sant’Elena, ma era troppo forte il principio di una supremazia assoluta della Francia che risaliva ai tempi di Re Sole».
Sul piano della teoria politica, fu l’inventore del bonapartismo inteso come governo autoritario esercitato in nome del popolo.
«In fondo Napoleone è stato il primo leader populista. Si avvaleva dello strumento del plebiscito, destinato a segnare tutto l’Ottocento. Inviterei a non ironizzare troppo sul plebiscito: è vero che è una forma di consultazione molto primitiva, manipolata dai governi e consegnata definitivamente al passato dalle elezioni democratiche. Ma rappresentò un progresso enorme rispetto alla monarchia del diritto divino!».
Da cosa nasceva il carisma di Napoleone?
«Credo contasse molto il suo talento militare. I personaggi che passano alla storia con il titolo di Grande o di Magno per la gran parte devono la loro gloria alle vittorie sul campo di battaglia».
A distanza di duecento anni i sentimenti intorno alla sua figura appaiono ancora molto vivi: nell’ammirazione e nell’odio.
«Sì, non solo in Francia. Due anni fa, prima di una lezione di storia a Padova, ricevetti una garbatissima mail da parte di un gruppo di cittadini: non dimentichi che fu un saccheggiatore di opere d’arte, un assassino, un traditore… Spiego un seguito così partecipe con il rapporto malsano che abbiamo con il passato. È un terreno nel quale tendiamo a eccitarci: parteggiando, schierandoci in modo fazioso, Napoleone sembra fatto apposta per questo genere di zuffe».
Perché è sbagliato questo approccio?
«È una questione di prospettive. D’accordo: era un criminale che faceva fucilare i dissidenti, convintamente schiavista, maschilista della peggiore specie. Ma uno storico non deve giudicare l’animuccia personale di Napoleone, piuttosto deve capire perché la gente fosse disposta a farsi scannare per lui. E non in nome dello sterminio, come sarebbe accaduto nella Germania hitleriana. Ma in nome della libertà, dell’eguaglianza e del progresso. Questo ha rappresentato Bonaparte agli occhi di moltissimi contemporanei. Ed è per questo che noi oggi lo consideriamo uno dei più grandi personaggi della storia».