Tuttolibri, 1 maggio 2021
Su "Per non morire di arte" di Ugo Nespolo
Quando uno riceve un libro, per leggerlo o recensirlo, talvolta si coagula, nel sottofondo, come un’immagine acustica, percussiva. Preventiva e sottaciuta, che non ci abbandona. Per questo libro di Ugo Nespolo (che raggiunge questo fortunato approdo delle Vele Einaudi) si è addensato un connubio, che forse non dispiacerà nemmeno al funambolico artista torinese: «Un po’ per celia, un po’ per non morire!». Ovvero il titolo beffardo dell’autobiografia di Petrolini. Qui di «celia», ce n’è ben poca, essendo un libro assai amaro e disilluso. Ma, attenzione, facendo uno spelling stil-critico del titolo, Per non morire d’arte, ecco che cosa ne esce: «Per non» (esordio apparentemente negativo, esortativo obtorto collo). «Morire» (aura assai apocalittica). E poi, questo «morire d’arte», che anche ha qualcosa di antico, di sillabato e lamentoso. Di consapevolmente (o no?) pucciniano (visto che nella sua poliedricità, Nespolo aveva anche coinvolto persino l’imprevedibile Gozzano). «Vizi d’arte» è il suo primo capitolo d’esordio, che richiama «Vissi d’arte»; ma c’è la felice formula delle «tramontate avanguardie», che fa eco alle stelle, oscurate, di Turandot. Il succitato capitolo d’introibo, è in effetti un accorato epicedio, per un’agonia protratta, prossima, paventata della «morte dell’arte» hegeliana. Trafitto (termine molto adoperato dall’autore) da questo martellamento del gong funebre, che accompagna il compianto di questa Morte annunciata. Quasi conformato sulla metrica uggiosa della Pioggia del Pineto dannunziana (e c’è quasi una conferma con la formula dissimulata della «favola bella»: citata). Favola, che non è più quella dell’arte «di una volta», ma quella della devastante simil-plasticata «arte» d’oggi, ingorda di dollari, dileggiata, svilita, che «fa harakiri», oppressa dal gigantismo disneyano, dalla voracità mafiosa del sistema dell’Artworld, pervasivo ed impazzito. Tra Musei-obitori e super-mercati di scaduti e scadenti prodotti, «nati morti» e naturalmente osannati del compromesso e omertoso «sistema dell’arte». Trans-valori «estrogenati», con la profetessa Peggy Guggenheim che avverte: «Ciò che costa, vale». Delittuoso editto.
Ma come è costruito questo pamphlet, mascherato da autobiografia (o viceversa)? Il riferimento più prossimo direi che è il Sartor Resartus di Thomas Carlyle, Il Sarto rappezzato (che forse è in linea con la poetica a puzzle del nostro artista). Satira di costume para-intellettuale, testo e commento al testo, racconto autobiografico e conte philosophique, dedicato a un parodico filosofo anti-hegeliano, detto «Sterco del diavolo». Romanzo-saggio amato da Conrad, Baudelaire, Joyce, Unamuno, Mishima, ecc, ma soprattutto Borges: «Non esiste un libro più intrepido e vulcanico, più tormentato dalla desolazione». Libro edito dal grande Emerson, che sosteneva che «il merito dell’originalità non è la novità, ma la sincerità». Un’espressione che dovrebbe essere cara a questo artista, che da sempre ha condiviso questa «superstizione della novità», a tutti costi; quasi che fosse l’unico atout della Modernità. In questo «grado Xerox dell’arte», lo sosteneva l’amico Baudrillard. Che «adorava le mie cravatte» (immagino con la spirale patafisica alla Jarry, e il «nodo Scappino o Balthus»). Brevi concessioni al suo dandysmo malcelato. Ma ormai s’è metamorfizzato in un Giano bifronte, che manifesta rari episodi di «esaltazione e entusiasmo» giovanili, subito smangiato e «smagrito» dall’ «aculeo tagliente» della «bellezza ipocrita», di cui ci parla Schlegel, senza «acquietare durevolmente l’anima». Travolto da uno spleenetico furore iconoclasta, sotto il fosco crepuscolo della Melanconia imperante e l’«insofferenza precoce». Alcuni esempi di aggettivi, percussivi e deprimenti: «Estinto, gelido, sfibrato, svaporato, insensato, tramortito, snervato, autolesivo», tra «pallidi echi di velleità, dal sapore tardo-futurista», svalutazioni perverse e abdicazioni sofferte, che trafiggono qui e là il testo. Costruito con studiate simmetrie: non si può non avvertire che questo saggio-sogno (assai sinistro), si apre con una citazione dal romanzo Il Respiro di Bernhard. Come per un’allucinazione, il giovane Thomas si risveglia in un corridoio kafkiano, gremito di stanze e decide di reagire, «per non morire». Nell’immagine ultima del libro, un sussulto che coinvolge anche Nespolo, Thomas finalmente convoglia la sua «irritazione»: «Sono riuscito a mettermi in salvo, (…) semplicemente ci scriverò sopra qualcosa… subito e subito prima che sia troppo tardi». Anche Nespolo (che qui ci cita molto poco della sua arte pittorica, «sghemba e laterale») parla, invece, ricorda, ragiona, come un Tristram Shandy pedemontano. E si auto-commenta, in una sincera auto-recensione di sé: «Forse è l’ora di trovare un epilogo a questo viaggio per stazioni apparentemente non connesse…». Ogni capitolo, infatti, un incipit assai romanzesco, epico, spesso picaresco. «All’ombra dei malinconici grigiori delle montagne biellesi è passata veloce la mia fanciullezza...». «Si partiva ogni venerdì all’imbrunire in quel gelido inverno del 1967…». Quasi sempre un memorabile e periglioso viaggio in macchina, con improvvisati chauffeur imbrillantinati ed improbabili artisti traghettatori. Per visitare Ben Vautier, Fontana, Baj, o i fantasmi residui di Cobra, Pinot Gallizio e Guy Debord. Addirittura, un parodico esordio alla Vasari, quando «il cielo s’era fatto scuro come per invitare i fantasiosi quatto umori della medicina greca ad agitarsi e confondersi», mentre il je narrante traffica con una rivista polverosa, «ancora capace di offrire dichiarazioni tanto taglienti quanto raccapriccianti, stilati da un Abo, in vena di iperboliche teorizzazioni».
Picchia, picchia, anche con il suo già-mentore Celant, drammaticamente scomparso (certo) ma deificato e marmorizzato, senza un briciolo di riflessione critica. E non è l’unico sciocchezzaio flaubertiano che incontra, in questo viaggio «crudele» (aggettivo eliotiano) e disilluso: concordando che un «critico è un uomo che conosce la strada, ma non può guidare l’auto». Non so se può esistere un libro «bipolare», però poco a poco il cielo nuvoloso si schiarisce, per accogliere un minimo accenno d’autoritratto felice. Dislocato tra i suoi eroi scapigliati (Baj: «Quello sfigato dell’Ugo t’arriva con Bolex di fianco, e Nagra sul culo») o internazionali: i Ginsberg, i Mekas, Maciunas, Yoko Ono, sor Lucio, che è poi Fontana, ecc. (che transitano nei suoi film sperimentali) e che repentinamente lui ri-mitizza, con questi accorati happening del sentimentalismo ribelle. Poi, zac!, il diluvio. Per carità, le Torri pseudo-filosofiche di Kiefer! Basta con Christo! Che sinistro meteorite, la Schaulager di Herzog & De Meuron (in cui però abbiamo visto magnifiche mostre!). Anche il divinizzato Marcel Duchamp, alla fine par quasi sopravvalutato, nonostante sia il padrino della sua poetica portativa e «miniaturica». Abominio con la «babele post-modern», anche se l’ironia, il nomadismo, il collage da bricoleur, la citazione beffarda, dovrebbe pur andargli a genio. Cita Clair, Vattimo, Perniola, Baudrillard, Compagnon, Jencks, Danto, ma in fondo: sono solo «Teorie o Noia». «Solitudine e destino». Destino di esser arrivato troppo tardi, come in un romanzo di Vila-Matas. Il fotografo delle «tramontate avanguardie» ha già scattato l’icona fatale, finita la pellicola! Lo lasciamo con un suo alter-ego, mentre «a colpi di martello, in un magazzino polveroso, pieno di molte opere di Ben, le distruggiamo sereni. È Fluxus, bellezza!».