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 2021  maggio 01 Sabato calendario

Intervista alla scrittrice Hilary Mantel

È così frustrante, in questo periodo di pandemia, fare tutto via computer. Qualcuno potrà pensare che si risparmi tempo, che con uno zoom, una mail la vita sia più veloce. Forse è vero, ma il piacere di prendere un treno, arrivare nel paesino del Devon con un taccuino e un libro da farsi autografare è un’altra cosa. Per fortuna sono riuscita a farlo, in occasione di un altro colloquio con Hilary Mantel, prima che il virus ci relegasse tutti dietro uno schermo. Quindi adesso so che lei è seduta davanti a una delle grandi finestre del suo studio luminoso, di fronte al mare. Lo sguardo spazia da una parte verso il promontorio pieno di gabbiani, si allunga fino a una spiaggetta di ciottoli chiusa da una fila di cabine e baracchini di birre e gelati, che si popola di bagnanti appena spunta un raggio di sole. Dall’altra verso una scogliera rocciosa e il paese vecchio, dove i pescatori in cerata gialla e stivali di gomma tirano in secco le barche e puliscono le reti. Hilary Mantel ha deciso di abitare in questo luogo solitario e distante dal rumore di Londra per lavorare meglio. Vive con il marito, un geologo in pensione, con il quale si è sposata una seconda volta dopo un primo divorzio. Il raddoppio deve essere una costante della sua vita: è l’unica donna ad aver vinto per due volte il Booker Prize (per i primi due titoli della fortunata trilogia sui Tudor). Hilary Mantel è una persona di una squisita gentilezza e anche timida, quasi timorosa di presentarsi per quello che è: una delle più grandi scrittrici viventi non solo d’Inghilterra, ma di lingua inglese. E seppure dietro alla barriera di uno schermo, eccoci qui, a chiederle se le fa effetto tornare a parlare di un libro pubblicato nel 1995. Sono passati così tanti anni. «Sento ancora molto vicino il mio "io" che lo ha scritto, e anche con il mio "io" molto più giovane che ha sperimentato (alcuni) degli incidenti che racconta; in effetti ero una studentessa a Londra nel 1970, come Carmel nella storia, anche se la sua vita familiare è diversa dalla mia».
C’è qualcosa che cambierebbe se lo pubblicasse oggi?
«Non rileggo spesso quello che ho scritto, ma ricordo sempre le sensazioni che hanno accompagnato il processo di scrittura. Certi giorni, mi tornano in mente i luoghi della creazione di un libro: dove eri nel momento in cui è arrivata una certa idea, dove era posato il taccuino, come cadeva la luce in quella stanza. Ho lavorato alle parti iniziali di questa storia quando vivevo in Arabia Saudita. Poi ho interrotto e scritto molti altri romanzi e sono tornata da Carmel e dai suoi amici anni dopo. Passato un lasso di tempo così lungo, tutta la storia si è catalizzata in un solo giorno, la stesura successiva non ha richiesto molto».
Fin dall’inizio siamo avvertiti di non considerare questa una storia sull’anoressia. Piuttosto una storia sull’ "appetito". Di che tipo?
«Perché Carmel non mangia? In parte per risparmiare denaro. Poi, per risparmiare tempo. È addestrata a differire la gratificazione, al fine di diventare ciò che immagina: una persona libera, liberata dal bisogno. È disposta a sacrificare il comfort a breve termine alla sua ambizione a lungo termine: questo è il suo "appetito"».
Una parte del libro è ambientata nel 1970, un’epoca in cui il corpo delle donne divenne un tema forte. "Ci avevano portato a pensare che il corpo fosse un ostacolo, un male necessario" scrive il narratore. Nella sua vita ha lottato con una malattia che le ha creato dolore e stress. Quanto è importante per una donna il rapporto con il proprio corpo?
«Da giovane ho sofferto gravemente di endometriosi, che non mi fu diagnosticata. Mi fu detto che stavo immaginando il dolore. Quindi ho passato molto del mio tempo cercando di fuggire dal mio corpo, lasciarlo alle spalle e vivere nella mia testa. Mi rendo conto che mi stavo dando un compito impossibile; prima o poi ci deve essere una resa dei conti, una contabilità. Ma mi sembra che i corpi delle donne fossero e siano diventati un problema, anche se sono perfettamente sani. Come le ragazze della storia, sperimentiamo ancora un conflitto tra il desiderio di costruire una casa e crescere una famiglia, e il desiderio di essere fuori nel mondo e avere successo in una carriera; e questo conflitto si trasforma nel "problema" della donna, una battaglia che lei sola deve combattere. Ma in realtà è un conflitto umano e sociale, che dobbiamo abbracciare come parte del complicato lavoro della vita».
La povertà è un tema forte e lei descrive in maniera molto cruda il brutale sistema britannico di classi e status. È qualcosa che ha sperimentato sulla sua pelle?
«Come figlia di una famiglia della working class sono stata la prima ad avere un’istruzione superiore. I miei genitori hanno entrambi lasciato la scuola a 14 anni e non hanno mai sostenuto un esame finale. È una situazione che mette una grande responsabilità sulle spalle di un bambino: stai facendo per tutte le generazioni passate quello che non sono riuscite a realizzare e hai opportunità che non si sarebbero mai sognate. Io sono nata nel 1952, appena dopo che una tranquilla rivoluzione politica aveva portato in Gran Bretagna il welfare. Sono cresciuta con assistenza sanitaria e istruzione gratuite. Ma ci vogliono decenni per livellare la disuguaglianza sociale».
Le relazioni tra donne sono spesso complesse. Odio, amore, amicizia, invidia, gelosia sono sentimenti comuni. Perché c’è spesso la falsa narrazione di una sorellanza che non esiste nel mondo reale?
«Penso che la mia idea di sorellanza sia simile a quella di Elena Ferrante, e le ragazze nel mio libro non sono molto diverse da Lenù e Lila. La sorellanza è possibile, ma è sempre sotto stress, ambivalente. Deve fare i conti con tutte quelle emozioni spiacevoli che lei ha elencato. Una volta che sono identificate come parte della nostra vita - viste come naturali, non malvagie - possiamo lasciarle cadere al loro posto e iniziare a prosperare. Immagino che questo valga anche per le relazioni tra uomini. Non dovremmo negare l’oscurità della nostra natura. Ma possiamo accendere una luce».
Lei è una formidabile indagatrice del comportamento umano. Questo libro, ispirato in parte alla sua esperienza autobiografica, parla di come si diventa donne, ciascuna con i suoi modi e tempi.
«Diventare una donna nel senso pieno del termine non è semplice. Non c’è un momento in cui si verifica e raggiungere il proprio potenziale solo avanti con gli anni, non è un fallimento. Alcune donne per tutta la vita ricoprono il ruolo di "cameriere emotive". Penso che siano meno rispetto al passato; anche se ci si aspetta spesso che le donne ricoprano ruoli di assistenza mal pagati o non pagati affatto. Anche adesso, in molte hanno paura di essere viste come quelle che chiedono "troppo" dalla vita. Ciò che è visto come autoaffermazione negli uomini, dall’altra parte è visto come egoismo e rabbia».
Lei scrive dei grandi cambiamenti per le donne negli anni Sessanta e Settanta. Pensa che le ambizioni e le lotte di allora siano state soddisfatte? Che la disuguaglianza tra i sessi stia andando verso un maggiore equilibrio, che il #Metoo sia la nuova forma di femminismo?
«Penso che ci siano stati progressi, ma che non si proceda in linea retta e spesso si torni indietro. Ciò che è frustrante per le donne della mia generazione è che abbiamo un forte senso di déjà-vu. Abbiamo affermato il nostro diritto ad avere pari opportunità e rispetto, e pensavamo di averlo raggiunto, ma sembra che ogni generazione debba affrontare nuovi problemi. Penso che la vera uguaglianza sia sempre qualcosa da conquistare, perché possiamo ottenerla e mantenerla solo se insegniamo alla prossima generazione che devono pretenderla».
A quale dei suoi tanti libri si sente più legata?
«Non ho davvero preferiti. Li riconosco tutti, come se fossero stati creati da tanti sé leggermente diversi, sé che erano sempre impegnati in una sorta di lotta : con la salute, con le circostanze, con la storia stessa mentre si evolveva».
Ha scritto molti romanzi passando praticamente inosservata per tutta la vita. Poi ha vinto due volte il Booker Prize. Cosa ha significato?
«In termini pratici un’elevazione di status e un aumento della domanda dei miei libri in tutto il mondo. I premi hanno cambiato il mio lavoro quotidiano, in quanto ho potuto concentrarmi solo su ciò che volevo scrivere, senza fare altro per guadagnare. Ma i premi non hanno cambiato il mio rapporto con la pagina bianca. I risultati di ieri non contano: devi reinventarti come scrittore ogni giorno. Sento che c’è ancora molto da scoprire».
Ha mai avuto paura di quella pagina bianca?
«È una sensazione che provo ogni giorno, ma ho un forte senso della possibilità e voglio ancora esplorare i miei limiti come scrittrice e oltrepassarli».
Le idee arrivano dall’inconscio o dal mondo reale?
«Tutti i miei romanzi storici hanno le fondamenta nei fatti. Lì l’ispirazione è "ciò che è realmente accaduto" e il mio ruolo è scoprire come ci si sentiva mentre accadeva. Alcune storie si basano sulla mia esperienza, come Un esperimento d’amore. Altre nascono da aspetti della vita che non ho esplorato; cos’altro avrei potuto fare se non fossi stata una scrittrice? E se il mio corpo fosse diverso, ad esempio se fossi un gigante? E se la mia mente fosse diversa, ad esempio se potessi sentire i morti parlare? Per raccontare trame così strane, devi essere in grado di uscire dalla tua strada e lasciare che i processi inconsci ti guidino. Devi essere disposto a rinunciare un po’ al controllo, perché la storia si faccia strada da sola verso la luce».
Scrive di getto o fa schemi e prende appunti prima di iniziare?
«Faccio molte stesure e solo la metà di ciò che è nella prima sopravvive a libro finito, ma in una forma così alterata che nessuno tranne me lo riconoscerebbe. In un romanzo come Un esperimento d’amore, vuoi creare una spontaneità di tono; il narratore sta parlando direttamente al lettore. Ma nella narrativa storica (o almeno quella che scrivo io) devi scegliere ogni frase con molta attenzione, perché ognuna deve dire la verità, anche se non può dirla tutta».
Quando inizia sa già dove andrà?
«Potrei avere una mappa in mano, ma sono pronta a lasciare il sentiero e vedere dove la storia mi porta».
La vita di uno scrittore è molto solitaria. La sua?
«Ho un gran bisogno di silenzio e posso lavorare a lungo da sola senza sentire la solitudine; i miei pensieri mi fanno compagnia. Spesso bramo il contatto con altre persone, ma quando vedo gente e scopro che in realtà le mie energie diminuiscono invece di aumentare e ho bisogno di ritirarmi. Penso che molti scrittori abbiano un temperamento simile, contraddittorio, che lo vivano con un conflitto interiore».
Quindi non cerca molte interazioni col resto del mondo?
«Evito le occasioni sociali se posso, ma mi piace lavorare con altre persone, magari per discutere di scrittura, lavorare su un passaggio, cercare di tirarne fuori il potenziale. Per esempio, se sono in una sala prove con degli attori, apprezzo quell’euforia, la fiducia e il calore personale. È qualcosa che ho sperimentato solo quando i primi due romanzi della mia trilogia sui Tudor sono stati adattati per il palcoscenico. Allora ho desiderato di aver lavorato per il teatro prima».
Come è riuscita a produrre così tanto? Solo la trilogia sono migliaia di pagine. Ha una routine fissa ?
«La carriera di uno scrittore al giorno d’oggi è complicata e ci sono così tante richieste di diverso tipo: viaggiare, scrivere articoli, tenere discorsi, fare letture. Inoltre, c’è l’onere della burocrazia e dell’amministrazione che sperimenta chiunque lavori in proprio. Quindi, i giorni e le settimane che possono essere dedicati all’unica attività principale sono molto preziosi. Qualunque cosa accada, cerco di scrivere non appena mi sveglio. Può essere il contenuto del mio sogno, può essere una nota pratica su ciò che devo fare quel giorno, o una pagina per il libro su cui sto lavorando».
Ora che ha finito la gigantesca trilogia dei Tudor (ci sono voluti 15 anni per scriverla, giusto?) sta lavorando a qualcosa di nuovo?
«Sì, sono 15 anni. L’anno scorso ho lavorato all’adattamento teatrale dell’ultimo volume Lo specchio e la luce. Lo spettacolo dovrebbe debuttare a Londra in autunno. Ho anche lavorato per circa cinque anni a un volume fotografico sulla trilogia. E poi, sì, ho iniziato un nuovo romanzo, ma è ancora un po’ presto per parlarne».