Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  maggio 01 Sabato calendario

Chi sono e come vivono gli haredim

Recita il Talmud: «Colui che studia la Torah protegge l’universo intero». Così nei quartieri di Gerusalemme o tra i palazzoni scrostati di Bnei Brak le luci delle yeshiva, le scuole religiose, sono rimaste accese per tutta la notte, tutte le notti. Come se nel mondo di fuori – nel resto della nazione in cui alcuni haredim non si riconoscono – il virus non stesse già riempiendo di malati le corsie degli ospedali e svuotando di alunni le classi.
I rabbini si sono opposti alla quarantena di massa, hanno usato i loro rappresentanti in parlamento – partiti ultraortodossi che permettono al premier Benjamin Netanyahu di restare al potere – perché premessero e brigassero, la devozione non si può fermare neppure davanti alla pandemia. Fin dall’inizio il Covid-19 in Israele è finito fuori controllo soprattutto nelle aree dove vivono in maggioranza «coloro che tremano davanti alla parola di Dio», questo significa haredim in ebraico.
Che rappresentano il 12,6% della popolazione e la sua parte più povera: gli uomini dedicano la vita allo studio dei testi sacri, le mogli devono prendersi cura dei numerosi figli e allo stesso tempo cercare di portare a casa uno stipendio, sono loro a mantenere tutti. Queste famiglie – calcola l’Israel Democracy Institute – riescono a raggiungere la metà delle entrate totalizzate dagli altri israeliani e diventano sempre più grandi: nel giro di 16 anni la comunità è destinata a raddoppiare con un tasso di natalità molto più alto della media nazionale.
I cappelli di pelliccia, i Borsalino e i cappotti neri, abiti importati da altri Paesi e altre temperature, troppo pesanti per il sole del Medio Oriente. Tradizioni millenarie tenute vive negli appartamenti affollati di Mea Shearim a Gerusalemme dove gli spettatori di tutto il mondo sono potuti entrare attraverso serie tv come «Shtisel», il cui successo è legato anche alla capacità di raccontare con delicatezza le regole complicate di una comunità che ha fatto del richiudersi su se stessa un altro precetto, oltre alle 613 mitzvot rispettate dai praticanti.
Alcuni osservatori come Anshel Pfeffer – cresciuto in una casa ultraortodossa e adesso editorialista di Haaretz — sono convinti che la malagestione del virus abbia indebolito le difese immunitarie dei rabbini e che i giovani stiano cercando un modo di farsi sentire, senza per forza dover fuggire dagli obblighi asfissianti come succede alla Esty di «Unorthodox», altra serie tv che però solleva il velo nero, imposto alle donne, sui Satmar (a Brooklyn Heights, New York) una delle sette più oltranziste. «I governi israeliani hanno permesso alla comunità – scrive Pfeffer – di creare luoghi dove lo Stato non è più in grado di asserire la propria sovranità». 
Con i telefonini e la tv proibiti, la lingua parlata è ancora l’yiddish, l’ebraico è quello delle scritture, non l’idioma riportato alla vita e al presente da intellettuali sionisti come Eliezer Ben-Yehuda. È sempre più difficile per i rabbini controllare Internet o i giornali con opinioni diverse da quelli appesi lungo le vie che al sabato, il giorno più sacro, si riempiono di famiglie a passeggio in un altro secolo.