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 2021  maggio 01 Sabato calendario

Incontro con Domenico Dolce e Stefano Gabbana

Qualche giorno fa, su Instagram, un negozio francese di abbigliamento vintage molto quotato ha proposto in vendita una camicia di Dolce&Gabbana del 1992. Tra i particolari messi in risalto dal venditore, i bottoni ai polsini: due piastrine di porcellana con sopra, dipinti a mano, la Torre di Pisa e il Colosseo. Un dettaglio in apparenza secondario, ma che risulterebbe giusto anche nelle loro collezioni attuali, quasi 30 anni dopo (la camicia è stata venduta in meno di un’ora). «Purtroppo, o per fortuna, noi abbiamo un gusto preciso, che alla fine emerge sempre. E tra i nostri punti saldi, la celebrazione del patrimonio artigianale italiano è al primo posto, che si tratti di bottoni dipinti o di abiti ricamati».
Come dicono loro per primi, su certi principi Domenico Dolce e Stefano Gabbana ci hanno costruito tutto il loro mondo. E non è solo un modo di dire: per esempio, quando lo scorso settembre hanno presentato le loro collezioni di alta moda (uomo, donna e gioielli) a Firenze, hanno coinvolto quasi 40 botteghe toscane, dagli argentieri ai cestai, collaborando fianco a fianco con loro nella realizzazione dei diversi pezzi unici. Non è solo una questione promozionale.
«Fa piacere che si parli sempre di più di sostenibilità umana, oltre che ambientale. Significa che la qualità del lavoro è di nuovo un plus», spiegano i due. «Il pubblico sta capendo che ci sono ragioni precise se un pezzo realizzato a mano, impiegando ore e ore di lavoro, ha un prezzo superiore a quelli prodotti in serie. Sia chiaro, sappiamo che tutto questo a noi fa gioco, perché corrisponde esattamente a ciò che siamo e a quello su cui facciamo leva, ma ciò non toglie importanza alla questione. Gli artigiani devono avere la possibilità di esprimersi al meglio, e questo può avvenire solo se la loro dignità viene rispettata, e viene dato il giusto valore al loro lavoro».
Il contatto con certe realtà avviene su base praticamente quotidiana, e si estende su tutto il territorio, «dalla Sicilia all’alto Veneto», precisano, ma più di recente questo legame s’è fatto ancora più stretto. «Negli ultimi mesi siamo riusciti a spostare in Italia tutte le fasi di produzione: nulla di Dolce&Gabbana viene più fatto all’estero. Per esempio, le sneakers ora sono realizzate in Puglia, in un’azienda familiare dove la nuova generazione ha capito come evolversi, e su cosa puntare».
Non solo, per favorire lo scambio rapido e continuo fra creativi e manodopera, adesso esiste anche un laboratorio di sperimentazione interno al brand. «In pratica, quello che ci viene in mente lo proviamo, subito: tecniche, ricami, tagli, tutto. Ultimamente stiamo elaborando dei nuovi tessuti. In questo modo si è creata una catena: noi facciamo il prototipo, e poi i nostri team spiegano ai laboratori chiamati in causa come realizzarli». Così facendo il flusso di lavoro tra loro e gli artigiani è quasi continuo, il che in questi mesi non è proprio scontato. «Sono tutti molto preoccupati, e non gli si può certo dare torto. Per questo siamo contenti che il valore intrinseco di un prodotto attiri di nuovo il pubblico, dopo anni passati a inneggiare il consumo continuo». Ora va invertito il processo innescato dalla globalizzazione, proseguono. «Sia chiaro, anche noi siamo colpevoli: D&G, la nostra linea giovane (chiusa dieci anni fa, ndr ), nasceva con l’idea di uniformare lo stile, ma era un errore. Il futuro è nella personalizzazione. Ai nostri clienti piace che un nostro pezzo sia italiano in tutto, dall’idea alla realizzazione».
Quindi della globalizzazione non si salva nulla? Non proprio. «La digitalizzazione gioca un ruolo essenziale. Attraverso i nostri canali social possiamo raccontare cosa facciamo e spiegare le realtà dietro le nostre collezioni». La tecnologia così diventa lo strumento per promuovere la tradizione, anche tra i più giovani. «Sono molto curiosi. Certo, se ti rivolgi a un sedicenne lo fai soprattutto per far passare un concetto più che per vendere, visto che il loro potere d’acquisto è limitato. Ma tutto questo è secondario, l’importante è coinvolgerli e far capire loro cosa conta davvero. Per esempio, durante il lockdown siamo arrivati a postare dei tutorial su come farsi in casa, da soli, alcuni nostri pezzi. Non è certo stata una mossa di marketing: abbiamo pensato che, visto che insistiamo così tanto sull’importanza del “fatto a mano”, valeva la pena spingere il concetto fino in fondo. È davvero una questione di principio».