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 2021  aprile 30 Venerdì calendario

Ariosto, il grande moralista

Scritte fra il 1517 e il 1525, le Satire hanno una posizione particolare nell’insieme dell’opera dell’Ariosto e della sua stessa vita. L’Ariosto aveva già pubblicato, nel 1516, il suo capolavoro, l’ Orlando furioso , e incominciava a elaborare mentalmente il rimaneggiamento linguistico del poema, che ripubblicò nel ’21, e l’ampliamento strutturale e tematico che lo avrebbe portato alla redazione definitiva, del 1532.
Aveva pure terminato la composizione delle commedie in prosa (La Cassaria, I Suppositi), che gli diedero fama, oltre che di scrittore, di regista e uomo di teatro. Esse erano state rappresentate sulle scene di Ferrara e di Roma. Dopo le Satire, l’Ariosto ebbe ancora una nuova fase d’impegno teatrale, con le commedie in versi (Il Negromante, La Lena, I Studenti), in parte rifacimento di quelle in prosa (La Cassaria, I Suppositi); un rifacimento nel quale si sentiva la maestria conquistata nelle stesure del poema. Ormai l’Ariosto era il sovrintendente ufficiale agli spettacoli di corte degli Estensi. Ma nelle commedie come nel Furioso, il lavoro da compiere era piuttosto di perfezionamento che di creazione, anche se il Furioso del ’32 sovrasta di gran lunga tutto ciò che l’Ariosto aveva composto sino allora. La novità è tutta nelle Satire.
Sembrerebbe di poter ritenere che le Satire ci rappresentino il poeta nella sua maturità, ormai famoso e celebrato. Forse anche lui pensava (sperava) così. Invece lo attendevano ancora contrasti con i suoi signori, che preferivano sfruttare l’ardito ambasciatore, il quale frequentò, a malincuore, la corte romana dei pontefici per giustificare mosse politiche degli Estensi poco gradite ai papi dell’epoca, o utilizzare il saggio governatore in una regione primitiva e ribelle come era in quegli anni la Garfagnana. Pareva persino che, a giudizio dei suoi successivi signori, Ippolito ed Alfonso d’Este, l’aver dato l’immortalità agli Estensi, celebrando la loro famiglia nel poema, non avesse alcuna importanza rispetto al servizio di corte e alle mansioni ufficiali. Di qui per esempio l’ira di Ippolito quando l’Ariosto rifiutò di partecipare al trasferimento forzato della sua corte in una sede impervia e sgradita come la città di Agria (Eger) in Ungheria. Ho fatto riferimento al tema di tre delle satire, la I, la II e la IV (il rifiuto di seguire Ippolito ad Agria, i rapporti con il Papa, la durezza della carica di governatore in Garfagnana) per mettere subito a fuoco la tonalità complessiva delle Satire. La problematica morale è sempre collegata con riflessioni autoanalitiche, in modo da non enunciare nessuna «norma» in forma astratta, ma da suggerirle come deduzioni da situazioni vissute. In più, l’Ariosto non si pone mai come modello, anzi confessa le proprie manchevolezze. Ma le sue piccole colpe fungono da pietre di paragone per i peccati gravi o gravissimi che denuncia. Si prenda, ad esempio, il tema dell’ambizione e della caccia ai benefizi ecclesiastici, centrale nelle satire II, III, IV, VII, insomma quasi onnipresente.
Invece di predicare contro i vizi di orgoglio, avarizia, simonia, l’Ariosto ci mette davanti agli occhi gli innumerevoli uomini, specialmente di Chiesa, che li esercitano. La sua ripugnanza verso quei vizi non si appella a ideali astratti, ma è riportata, con understatement, a una specie di ripugnanza istintiva, che l’Ariosto sintetizza con il concetto di «pazzia», la quale, come Erasmo insegnava, può rivelare il peggio dell’animo umano. Meglio un pazzo come l’Ariosto, che i peccatori messi in scena dal poeta. 
In quegli anni il genere «satira» veniva rivalutato e ripreso nel clima umanistico e postumanistico. Basta ricordare opere di satira come quelle di Francesco Filelfo (1448) e del Cosmico (1480), in latino, e in volgare di Antonio Vinciguerra (1473-1501). E nel 1480 venivano tradotte in italiano, da Giorgio Sommariva, le Satire di Giovenale. Ma le Satire dell’Ariosto vennero considerate senza esitazioni una novità, come risulta dal volumetto Sette libri di Satire (1560) di Francesco Sansovino, che inizia appunto il suo volume con le Satire dell’Ariosto. L’Ariosto prende a modello Orazio ( satirae ed epistolae ), soprattutto per la struttura epistolare, mentre non mostra alcun interesse per Giovenale, che infatti resterà poi privo di imitatori.

Sicché la prima edizione autorizzata risulta essere quella di Giolito de Ferrari, del 1550, cioè di quasi vent’anni dopo la morte del poeta. Se è vero, come si ritiene, che questa edizione sia stata procurata da Virginio Ariosto, figlio prediletto del poeta, pare ovvio pensare che il ritardo enorme della pubblicazione obbedisca a una volontà espressa dal poeta prima di morire.
Non è difficile indicarne i motivi. Nonostante lo stile bonario e quasi dimesso, le Satire sono una specie di giudizio universale. I corrotti, i faccendieri, gli arrivisti, i traditori sono spesso indicati per nome e cognome, o con deformazioni talora trasparenti; i meccanismi del potere sono scoperti con acute osservazioni; i papi sono colti in gesti terribilmente simbolici, e la pochezza dei principi è messa a nudo. Se un papa, come ci racconta l’autore, lo aveva minacciato di gettarlo nel Tevere, era ancora più facile temere che l’opera fosse condannata, la sua circolazione impedita. Meglio lasciar passare una ventina d’anni. D’altra parte, l’Ariosto aveva rivelato, nelle Satire , molti tratti del suo carattere, anche se con reticenze e stilizzazioni. Perché offrirsi così indifeso al suo pubblico? Insomma, sia che si affronti il problema dall’esterno, sia dall’interno, l’Ariosto deve aver concluso che era meglio affidare alle Satire la funzione di un ammonimento, e di una confessione, dall’altro mondo. E comunque non gli mancò la gloria della messa all’Indice.