Il Messaggero, 29 aprile 2021
I conti di tasca a Johnson
LONDRA Le ristrutturazioni costano sempre un po’ più del previsto, ma quella di Downing Street, per l’inquilino Boris Johnson, sta avendo un prezzo, sia economico che politico, molto superiore alle aspettative. Dopo giorni di polemiche e rivelazioni su cui pesa l’ombra lunga dell’ex spin doctor Dominic Cummings, la mente dietro alla Brexit e alla straordinaria vittoria elettorale di un premier di cui conosce ogni debolezza, la commissione elettorale ha deciso di aprire un’inchiesta per capire come siano stati finanziati i lavori nell’appartamento del premier e della sua compagna Carrie Symonds, che ha voluto dare alla residenza un tocco contemporaneo con carte da parati lavorate in oro e la mano dell’arredatrice Lulu Lytle, amata dal principe Carlo e da Mick Jagger.
Il conto, che qualcuno stima da 200mila sterline, è stato pagato, ma il problema è capire se Johnson, a corto di contanti, abbia usato 58mila sterline di fondi del partito come anticipo, visto che è cosa nota che il premier, che guadagna 150mila sterline all’anno, ha dovuto ridimensionare il suo stile di vita rispetto a quando poteva sommare alle entrate della politica la sua attività molto ben remunerata da editorialista e non doveva mantenere (almeno) cinque figli e due ex mogli.
L’ACCUSACummings, arcinemico di Carrie che ne avrebbe decretato l’uscita dalle grazie di Boris, ha suggerito l’esistenza di un piano «antietico, folle e probabilmente illegale» per far pagare i lavori ai finanziatori del partito conservatore, come era emerso già qualche tempo fa quando era circolata l’idea di un trust per il restauro di Downing Street. Secondo la commissione elettorale, che vigila sull’utilizzo dei finanziamenti ai partiti, «potrebbero esserci state delle violazioni» anche se Boris, durante un accesissimo Question Time ai Comuni, ha risposto alle accuse del leader laburista Keir Starmer di non aver infranto nessuna «regola o legge» e di aver pagato di tasca sua.
LA DIFESA«Ho coperto io tutti i costi», ha tuonato, anche se l’utilizzo ossessivo dei verbi al presente da parte sua e dei suoi ministri getta un’ombra su quello che è successo in passato. Ad ogni modo collaborerà con l’inchiesta.
Da quando Cummings si è riaffacciato nella vita politica britannica, a un anno dalla sua gita a Barnard Castle in pieno durissimo lockdown, per Johnson sono iniziati i guai: oltre alla faccenda della ristrutturazione del Number 11, appartamento più grande rispetto al Number 10 destinato ai primi ministri e per questo preferito da molti da Tony Blair in poi, ci sono alcune fonti che riportano che Boris, a ottobre, pur di evitare un altro lockdown, avrebbe detto: «Che i cadaveri si impilino a migliaia uno sull’altro!». Una frase da Nerone che sta riportando l’attenzione sulla gestione caotica della pandemia, prima del brillante successo della campagna vaccinale. Non solo: a pochi giorni da un voto importante, il rischio che i Tories perdano le conquiste fatte nelle zone tradizionalmente laburiste a nord del paese grazie alla Brexit è considerevole.
La storia di Downing Street è dipinta dai suoi detrattori come un progetto faraonico portato avanti in un periodo di immensa difficoltà per molte persone da una Maria Antonietta così lontana dalla sensibilità popolare da aver voluto liberarsi «dall’incubo dei mobili di John Lewis», grande magazzino molto amato dalla classe media, scelti dalla spartana Theresa May, che al momento di insediarsi è rimasta ben al di sotto delle 30mila sterline concesse a ogni nuovo premier per aggiustare la residenza in base alle proprie esigenze. Gli scandali per favoritismi concessi agli imprenditori vicini a Johnson come il re degli aspirapolveri Dyson o al suo predecessore David Cameron si sprecano e ora bisognerà aspettare il voto del 6 maggio a Hartlepool, al di là del Muro Rosso, per capire se i problemi di Boris sono usciti dalla bolla di Westminster e sono arrivati alle orecchie dell’elettorato.