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 2021  aprile 29 Giovedì calendario

Il diario di Bunin tra stalagmiti fecali, pane di farina di piselli e mozziconi di sigaro

Salpando a Odessa sul piroscafo “Sparta” con la moglie Vera, il futuro premio Nobel per la Letteratura Ivan Bunin capisce di aver chiuso per sempre con la Russia. Il piroscafo francese è piccolo, stracarico di profughi e lo scrittore dubita persino di riuscire ad attraversare il Mar Nero d’inverno. È il 24 gennaio 1920, le sorti della guerra civile sono segnate.
Bunin considera la rivoluzione una sciagura irreversibile e non si fa illusioni: “Di colpo mi sono svegliato, di colpo mi sono reso conto: sì – ecco è così – sono nel Mar Nero, sono su una nave straniera, per qualche motivo sto navigando verso Costantinopoli, con la Russia è finita, e anche è finita tutta la mia vita precedente, anche se accade un miracolo e noi non affondiamo in questo abisso malvagio e ghiacciato!”.
Lo “Sparta” perde la rotta, ma in qualche modo arriverà a destinazione scaricando in vari porti europei il carico di relitti umani della Russia imperiale. Per Bunin si apre l’orizzonte di una vita da esule tra l’appartamento di rue Offenbach a Parigi e la villa di Grasse. Per dire le cose dalla prospettiva del tempo postumo: l’esistenza dello scrittore viene spezzata esattamente in due. Il destino lo ha fatto nascere lo stesso anno di Lenin (1870) e morire nello stesso anno di Stalin (1953), sia pure qualche mese dopo. A tagliare in mezzo la vita ci sono gli Okajannye dni, i Giorni maledetti, come definisce il periodo dell’ascesa al potere dei bolscevichi in contrapposizione al viaggio di nozze: “In quei giorni benedetti, quando il sole della mia vita stava a mezzogiorno, nel fiore della forza e della speranza, mano nella mano…”.
Giorni maledetti è il titolo del diario che Bunin tiene dal gennaio 1918 a quando mette piede sul piroscafo. Nonostante la descrizione spietata della rivoluzione lo scrittore – il primo premio Nobel russo – verrà riabilitato da Chrušcëv negli anni del disgelo. La sua opera compare in cinque tomi nelle librerie sovietiche, ma il veto per Giorni maledetti non verrà mai tolto fino alla fine dell’Urss. In Italia finalmente lo pubblica Voland con la traduzione di Marta Zucchelli. Si può parlare di ritorno di fiamma buniniano: Adelphi ha pubblicato nel 2020 la raccolta di racconti Il signore di San Fancisco e nel 2015 il saggio A proposito di Cechov; Corbaccio nel 2019 il romanzo Il villaggio.
Sulla pagina narrativa Bunin è elegante e pittorico, un impressionista che ritrae con eleganza intrisa di cupezza lo sfacelo della Russia e non. Così descrive Napoli: “Il sole del mattino li ingannava ogni giorno: dal primo pomeriggio il cielo si tingeva immancabilmente di grigio, cominciava a scendere un’acquerugiola via via più fitta e più fredda, e allora le palme all’ingresso dell’hotel mandavano riflessi di lamiera, la città pareva più sporca e angusta che mai, i musei troppo uguali, insopportabilmente fetidi i mozziconi di sigaro dei vetturini pasciuti…”.
In Giorni maledetti lo stile si condensa in frammenti e periodi brevi, la pittura si fa espressionista e grottesca nell’orrore per la vista della Russia imperiale travolta dalla rivoluzione: il pavimento della cattedrale coperto da bucce di semi di girasole sputate dal popolo, il pane di farina di piselli che provoca coliche spaventose, i primi martiri comunisti sepolti dentro a bare rosse sotto aste sghembe e bandiere straccione, creando città di morti in mezzo a città di vivi. Si prefigura in versione pionieristica la mutazione della piazza Rossa in necropoli con la mummia di Lenin sotto le mura del Cremlino e le ceneri dei compagni intorno.
Lasciando Mosca per Odessa Bunin viaggia su binari coperti di vomito. La merda ghiacciata sulle strade richiama le fekal’nyj stalagmit, le stalagmiti fecali che appaiono d’inverno nei palazzi russi e vengono mostrate dai telegiornali. “I giorni maledetti continuano”, ha commentato una studiosa di Bunin. Lo stile del diario è grottesco e cupissimo, malapartiano. Volto da “patrizio romano”, elegante, di nobili origini, provinciale e fuori dalle avanguardie artistiche, mistico e pessimista allo stesso tempo, Bunin nella distruzione del vecchio mondo non vede la forza fresca dei barbari ma la vecchia tara mongola che emerge quando il sangue inizia a scorrere. Come in Malaparte quello che sembra grand guignol potrebbe rivelarsi eufemistico. Notizie da Simferopoli: “Un vecchio colonnello è stato arrostito vivo nella caldaia di una locomotiva a vapore”.