2018; e, in quanto produttrice, l’Oscar 2021 al miglior film), neanche Meryl Streep nonostante tutte le sue nomination. L’attrice, 63 anni, ha fatto centro con il ruolo di Fern, la donna che entra in quel mondo nomade, tutto americano, di dimenticati, classe operaia andata all’inferno, capitalismo ripudiato.
Nomadland è in sala da oggi. «Non ho dovuto guardare lontano — ci spiega — mi sono ispirata alla mia vita. Vengo dalla working class, la mia famiglia ha vissuto in aree rurali e cittadine industriali. Dopo il Canada dei primi anni, sono cresciuta in una piccola città industriale vicino a Pittsburgh, in Pennsylvanya. Se credete che Fern sia altro da me, vi sbagliate di grosso». La vedremo in The French Dispatch di Wes Anderson, con Timothée Chalamet, Elisabeth Moss, Willem Dafoe, Léa Seydoux, Saoirse Ronan, poi nel ruolo della Lady shakespeariana in The Tragedy of Macbeth diretto dal marito Joel Coen, e in Women Talking , drammatica storia di donne e violenza diretta dalla regista e attivista politica Sarah Polley.
Frances, quattro Oscar ma niente Hollywood, vive a San
Francisco.
«Certo, California del Nord. Al Sud vado solo per lavorare. Joel ed io viviamo in un appartamento di due stanze con un bagno e mezzo. Altro che finti castelli a Bel Air...» .
Un po’ come la Fern di "Nomadland", che decide di vivere ai margini di un sistema che ha stritolato tante esistenze.
«Con la differenza che io non ho perso alcuno dei miei cari, a parte i miei genitori morti in tarda età dopo vite bellissime e felici. Fern ha perso il marito prematuramente.
Penso a me e Joel: se lo perdessi, non so cosa farei. Fa parte del mio lavoro credere che quel che accade al mio personaggio potrebbe accadere anche a me. È questione di empatia. E penso che il pubblico capisca Fern come l’ho capita io, per questo il film ha toccato un nervo delicato».
Mostra al pubblico l’altra faccia del sogno americano.
«Vogliamo parlare di giustizia sociale? O della disparità di reddito e di opportunità? Guardi, una delle cose che più mi hanno segnata, e a 63 anni parlo con cognizione di causa, è che una con la mia estrazione abbia avuto l’opportunità di emanciparsi. Ho frequentato il liceo in una cittadina industriale, mi sono diplomata con ragazzi che subito dopo, a 18 o 19 anni, sono andati in fabbrica senza pensarci troppo, anche se si parla di industria metallurgica, quindi veleni, inquinamento di laghi, fiumi e così via. In poco tempo si sono comprati una macchina, una casa, si sono sposati, hanno fatto dei figli e sono riusciti a mantenere la famiglia senza problemi».
Cosa è cambiato da allora?
«Oggi, anche se lavori fino a spezzarti la schiena, non puoi più permetterti macchine, case, mutuo, figli. La tua industria continua a inquinare e tu, operaio, a stento paghi l’affitto. I personaggi di Nomadland mandano a quel paese tutto questo. Si chiamano fuori. E dicono: faccio un lavoro stagionale, il resto del tempo lo vivo a modo mio, giù dalla giostra».
Lei in che modo è riuscita a evitare quel destino?
«Una borsa di studio mi ha permesso di frequentare Yale.
Altrimenti, è poco ma sicuro, sarei finita in galera. A Yale ho imparato tantissimo, è stata una fortuna e una benedizione. È lì che sono diventata attrice, lì ho conosciuto mio marito, che mi ha capita subito e apprezzata» .
Lei è anche produttrice del film, cosa l’ha spinta a scegliere Chloé Zhao come regista?
«Nessuno sceglie Chloé, si sceglie da sola. Detto questo, nel 2017 al Toronto Film Festival vidi il suo penultimo film, The Rider , e pensai: non so chi sia, ma voglio vedere altre cose sue. Si capiva che questa giovane donna aveva una visione e uno stile suoi, fuori da ogni parametro. Un po’ come me. Era destino che ci incontrassimo e che diventassimo socie d’arte».