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 2021  aprile 29 Giovedì calendario

Biografia di Giorgio Pietrostefani

Quando, per gioco, i capi di Lotta continua si divertivano a immaginare la composizione del governo dopo che fossero andati al potere, il ministero dell’Interno veniva invariabilmente assegnato a Giorgio Pietrostefani. Un po’ perché era figlio di un prefetto. Un po’ perché lo chiamavano Pietrostalin, per la sua durezza. Un giorno disse a una futura leader del femminismo italiano, che era entrata nella stanza delle riunioni senza preavviso: «Adesso esci, bussi, chiedi permesso, ed entri». E a una scrittrice di successo intimò di non presentarsi più in collant, «che mi distrai gli operai». 
In carcere, al don Bosco di Pisa dove era rinchiuso con Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani indossava una tuta con un maglione verde, e gli accadeva di passare ore in parlatorio a raccontare la sua storia. All’Aquila era compagno di scuola di Bruno Vespa. Era arrivato a Pisa da studente a 19 anni, nel 1962. Si iscrisse al Pci e ne fu radiato: troppo di sinistra. «I momenti più attesi erano quando arrivavano i tre santoni: Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Toni Negri. Non si faceva altro che parlare di classe operaia, l’operaio era Dio fatto uomo, ma non ne vedevamo uno. Gli operai veri, anima e sangue, li incontrammo un paio di anni dopo, quando irruppe nella nostra vita Adriano Sofri. A Pisa vivevamo a casa sua: c’erano due bambini, quindi tutto funzionava regolarmente, il frigorifero era sempre pieno, si mangiava tre volte al giorno...». 
«L’inizio di tutto fu la Bussola. Avevamo stampato in mezza Toscana manifesti a lutto con la scritta: “Il 31 dicembre a Viareggio faremo la festa ai padroni”. Adriano si arrabbiò molto con me per quella che gli pareva una caduta di stile. La notte di San Silvestro del 1968 ci tesero una trappola. Noi strappavamo i papillon ai malcapitati che andavano a festeggiare il capodanno, qualcuno aveva riempito sacchetti di vernice rossa (altri, esagerando, di escrementi) che lanciava contro le signore in lungo. E tiravamo sassi ai carabinieri schierati di fronte alla Bussola. D’un tratto, su una di quelle barricate improvvisate, cadde un ragazzo. Vedevamo le fiammate delle pistole, qualcuno gridò: “Sappiamo che sparate a salve, non ci fate paura!”. Invece erano proiettili veri. Soriano Ceccanti rimase paralizzato. Io mi salvai nascondendomi in un cespuglio». 
Nel 1969 Pietrostefani è a Milano. «Non avevamo i soldi per mangiare, un giorno un compagno, Tonino Lucarelli, che era un po’ acrobata, cominciò a camminare sulle mani, e io feci la questua con il cappello. Quando esplose la rivolta di Mirafiori andai a Torino, dove c’era già Sofri, che viveva a casa di Luigi Bobbio, il figlio di Norberto: corso Turati 63. Suonammo, ma non rispose nessuno. Allora Tonino si arrampicò lungo la parete e mi aprì. Il frigo era pieno. Lo saccheggiammo. Poi arrivò Adriano che distribuì i compiti: lui a Mirafiori, Tonino al Lingotto, io a Rivalta. In fondo a un manifesto scrissi: “Vinceremo”. Adriano si arrabbiò moltissimo. Io mi difesi dicendo che pure il Che finiva così i suoi appelli. Lui invece volle che si scrivesse sempre: “La lotta continua”». 
«A Milano tutto ruotava attorno al bar Magenta, che era il bar della Cattolica, dei trafficanti e della polizia. Il proprietario era missino ma gli stavamo simpatici, ci dava il seminterrato per incontrarci. Infiltrarci era un gioco da ragazzi, infatti le nostre riunioni erano piene di poliziotti. Due si sedevano sempre accanto a me, alle manifestazioni erano puntualissimi, con spranga ed elmetto. Un giorno li feci seguire e scoprimmo che la sera andavano a dormire in caserma a Sant’Ambrogio. Li presi da parte e gli dissi: “Ragazzi vi abbiamo beccati, non venite più”. Quasi ogni settimana venivo convocato dal questore Allitto Bonanno, che mi trattava con grande cortesia, forse perché mio padre era prefetto in carica, ad Arezzo. Il commissario Allegra preparava il caffè e Allitto mi chiedeva: “Allora, sabato cosa succede?”. Fino a quando, il 12 dicembre 1972, arrivammo allo scontro. Volevamo manifestare a piazzale Loreto per il secondo anniversario di Piazza Fontana. Allitto fu durissimo: “Potete fare un comizio a Città Studi. Ma attorno ci metterò tanta di quella polizia che non uscirete neanche con i carri armati”. All’uscita sfilammo in colonna, fotografati uno a uno. Un disastro». 
A Milano c’è anche Renato Curcio, fondatore delle Brigate Rosse. Nel libro-intervista scritto con Mario Scialoja, «A viso aperto», Curcio racconta di aver incontrato nel 1971 Pietrostefani, che gli avrebbe proposto di far confluire la sua organizzazione in Lotta continua. A un secondo incontro sarebbe stato presente anche Alberto Franceschini, ma la trattativa sarebbe finita in una rissa. Al processo Calabresi, Pietrostefani ha negato, Franceschini ha nicchiato: «Giorgio è più grosso di me, se mi avesse messo le mani addosso me ne ricorderei...». Ma quando le Br sequestrano e fotografano con una pistola puntata sul viso e un cartello al collo Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens, il comitato milanese di Lc scrive un volantino di approvazione. Mandato di cattura per tutti, che devono partire latitanti. 
Il 17 maggio 1972 viene assassinato il commissario Luigi Calabresi. Nell’estate 1988 saranno arrestati Ovidio Bompressi, Leonardo Marino, Sofri e Pietrostefani; che stava per diventare amministratore delegato di un’azienda dell’Iri. A Parigi è arrivato il 24 gennaio 2000, alla vigilia della nona sentenza, quella della condanna definitiva. «Ho quasi sessant’anni e mi tocca giocare a nascondino» diceva. Lo incontrai nell’agosto 2002. Pantaloni bianchi, camicia azzurra, giacca blu, occhiali di tartaruga. Si era avvicinato alla fede, si definiva «quasi credente», diceva che «la sinistra in Italia è rappresentata da Cofferati e dal Papa», che era ancora Wojtyla: «Sono gli unici a occuparsi dei deboli». Aveva un bel ricordo di D’Alema: «A Pisa era sempre nel movimento. In minoranza, magari, ma c’era: alle assemblee, alle manifestazioni. Ma non è vero quello che ha raccontato: D’Alema non ha mai tirato una molotov, perché di molotov nel ’68 a Pisa non ce n’erano. Al massimo uno dava una spinta a un poliziotto e l’altro si metteva gattoni dietro di lui per farlo cadere». 
Il passato gli era venuto dietro. In quei giorni stava leggendo un libro di Dürrenmatt, «Il sospetto», che parla della morte di un commissario di polizia. Ma qui le strade divergevano. Perché Pietrostefani, alle domande sull’omicidio, rispondeva che «la verità storica non esiste». Dürrenmatt sostiene invece, ne «La morte della Pizia», che la verità esiste, eccome; e «resiste in quanto tale se non la si tormenta».