28 aprile 2021
Mezzo secolo di Manifesto
Riccardo Barenghi, La Stampa
È un calabrone che vola da cinquant’anni, eppure secondo le leggi della fisica il calabrone non potrebbe volare. Così almeno sosteneva Luigi Pintor, che di quell’insetto miracoloso è stato il genitore, insieme con Rossana Rossanda, Valentino Parlato, Luciana Castellina, Lucio Magri, Aldo Natoli e tanti altri. Stiamo parlando del Manifesto che oggi compie mezzo secolo e di cui Pintor non fu solo co-fondatore ma anche e soprattutto l’anima. Anche perché di tutto il gruppo radiato dal Pci nel ’69 era l’unico giornalista, quindi sapeva cosa fosse un giornale.
Appunto, un giornale: progettarlo, organizzarlo, mettere insieme una pattuglia di giovani alle prime armi, insegnare loro tutto quel che dovevano sapere per poter scrivere un articolo, comporre un titolo, fare un’intervista, produrre un commento, e spedirlo in edicola il 28 febbraio 1971, senza un editore, con stipendi di fame, senza pubblicità con il rischio di chiudere da un momento all’altro. Fu una scommessa che nessuno pensava si potesse vincere. A cominciare dallo stesso Pintor.
E invece quel «quotidiano comunista», scritto sotto la testata, è vivo e vegeto, sopravvissuto ai suoi genitori, purtroppo morti tutti (tranne Castellina, che a 92 anni ha ancora la vitalità di una ragazza), esce in edicola, vende circa 14000 copie tra carta e digitale, e ha ancora qualcosa da dire. Ai suoi lettori, alla politica e soprattutto a quel che resta della sinistra italiana. E fu proprio in polemica con la sinistra di cinquant’anni fa, cioè il Pci, che furono stampate quelle due parole «quotidiano comunista», per dire che si poteva essere comunisti anche fuori dal Partito. Una scelta di cui Pintor si pentì immediatamente: «È pleonastica, una specificazione che non ha senso, ci chiamiamo il Manifesto proprio per citare Marx ed Engels… Quindi è ovvio che siamo comunisti». Ma non riuscì a togliere le due parole neanche un paio di decenni dopo, quando si fece un referendum in redazione per decidere se togliere quella testatina. La maggioranza dei giornalisti e dei tecnici bocciò la proposta.
Ma al di là dei nomi, la sostanza ci racconta che fare un quotidiano ideologizzato è quasi impossibile, oltre che sbagliato. Tanto che lo stesso Pintor amava parafrasare Gertrude Stein e la sua famosa rosa: «Un giornale è un giornale è un giornale». Meglio allora essere un giornale «dalla parte del torto», come recitava un’autopromozione. Dove il torto voleva dire ragione, ovviamente.
Ecco, il Manifesto è appunto un calabrone che vola controvento, ovvero contro il potere. Contro la Dc, ma anche contro il Pci, il Psi, a volte pure i sindacati, ovviamente i «padroni», chiunque insomma detenesse il potere, fosse quello ufficiale o quello di fatto. Certo, il rapporto col Pci era speciale, dialettico, a volte anche molto polemico, ma sempre con l’idea che si faceva parte dello stesso mondo. Tanto che quando nel 1984 morì Enrico Berlinguer, Pintor scrisse «È morto un buon comunista», mentre Rossanda ebbe il coraggio di ricordare tutti gli scontri con quel segretario, soprattutto quelli avvenuti durante il periodo della solidarietà nazionale (a proposito dell’oggi…).
Quando cadde il Muro di Berlino, noi «giovani» restammo basiti di fronte all’atteggiamento dei «vecchi». Che, nonostante avessero sempre contestato aspramente il regime sovietico, non erano contenti di quel che stava accadendo. Loro lottavano per un’uscita «da sinistra» dal socialismo reale, e consideravano quella dall’89 una deriva di destra. Il trionfo del capitalismo insomma. Non avevano torto nella previsione, ma lo avevano in quel momento storico: non si poteva essere contro quel movimento di popolo che buttava giù regimi dispotici e liberticidi, altrimenti perché si erano fatti radiare dal Partito troppo filosovietico?
Naturalmente il giornale si schierò contro la svolta di Occhetto, tanto che quando fu presentato il nuovo simbolo, una quercia con alla base il logo del Pci, il titolo fu: «Seppellito sotto un albero». Ormai siamo nel pieno degli anni Novanta e, siccome «un giornale è un giornale…», si fecero i conti con quello che passava il convento. Da Tangentopoli a Berlusconi, da Prodi a D’Alema, e ancora Berlusconi, e i girotondi con Cofferati al Circo Massimo che si pensava potesse essere il leader di una nuova sinistra. Non fu così ma ancora oggi il Manifesto, diretto da Norma Rangeri, lavora perché da quel mondo nasca qualcosa, tra Pd, Cinque Stelle, e pezzi sparsi della sinistra. Come sempre dalla parte del torto.
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Simonetta Fiori, la Repubblica
Era il 28 aprile del 1971, mezzo secolo fa. E un gruppo di comunisti eretici, guidato da Luigi Pintor, dava avvio a una delle avventure giornalistiche più folli ed eccentriche nella storia della stampa italiana: un quotidiano senza soldi, senza partito e senza editore, destinato a essere l’unico foglio sopravvissuto alla moria delle testate di sinistra. «Siamo rimasti soli e non è una bella notizia», dice Luciana Castellina, fondatrice del giornale che oggi celebra il compleanno con un’edizione speciale e con il primo di una serie di album autobiografici. «Se penso alla concorrenza dell’epoca – l’Unità, Paese Sera, l’Ora di Palermo – non è rimasto più nessuno. Ma questo non fa bene alla democrazia».
Quasi novantadue anni vissuti in perpetua fremenza, Castellina ha appena mandato un articolo sul recovery plan, ma la sua giornata prosegue con un incontro con le femministe e alle 21 l’agenda prevede la presentazione di un libro. «Noi del Manifesto abbiamo sempre corso moltissimo. Difficile ora fermarsi». Se le domandi le ragioni della cinquantennale resistenza, cita una frase di Cesare Romiti, l’amministratore delegato della Fiat che non era propriamente un compagno di viaggio. «Disse che nel nostro genoma c’era l’inclinazione a interrogarsi. Tra le definizioni mi sembra la più calzante. Ciò ha contribuito a tenere viva un’area politica e intellettuale che in questi anni non ha mai smesso di frequentarlo».
Figlio della rivista che aveva segnato il definitivo divorzio dal Pci, il quotidiano comunista nasceva in aperta concorrenza con Botteghe Oscure, in un passaggio storico segnato dalle lotte operaie e dal movimento studentesco. E sin dal primo numero anche il linguaggio dell’epoca, infarcito di “imperialismo americano” e “riformismo padronale”, tradiva l’illusione di un’imminente rivoluzione che non ci sarebbe mai stata. «I primi tempi non furono facili. L’Unità ci fece una guerra feroce. Chi li paga? fu il titolo con cui salutò il primo numero. E gli operai del Pci boicottavano la diffusione, rifiutandosi di scaricare alla stazione i pacchi con il giornale». Le prime riunioni di redazione si svolsero completamente al buio, «e non è una metafora», ricorda divertita Castellina. «Avevamo raccolto cinquanta milioni di lire, praticamente una miseria, con cui riuscimmo a pagare il deposito per l’affitto della sede di via Tomacelli. Ma restarono fuori gli allacci per la luce. Così i nostri primi incontri furono a lume di candela». Non era il solo elemento surreale. Perché in realtà di giornali s’intendevano soltanto Pintor, Castellina e Valentino Parlato, alle spalle una solida esperienza in varie testate della sinistra, mentre gli intellettuali Rossana Rossanda, Lucio Magri e Aldo Natoli si perdevano nei chilometri di carta che uscivano dalle telescriventi. «Ai più giovani insegnavamo come costruire l’attacco di un pezzo. E poi c’era la prova del sommarione di prima pagina: bisognava riassumere in poche righe il senso politico della giornata». Non erano ammesse sbavature o note enfatiche: contava solo l’asciuttezza della notizia. «Molti venivano a imparare da noi. Ricordo anche qualche collega della prima Libération ». Sin dal principio i rapporti con la gauche culturale francese furono molto stretti. «I nostri più grandi finanziatori furono Simone Signoret e Yves Montand, con un assegno di due milioni di lire: non una cifra da poco».
Un giorno si affacciò in redazione Jane Fonda. Figlia d’un mito del cinema, aveva già iniziato la sua campagna contro la guerra in Vietnam. «Fu anche grazie a lei che cominciai a scoprire l’America nei miei primi reportage per il giornale. Fui ospite a casa sua a Los Angeles e poi cominciammo a esplorare la periferia e i borghi lungo la costa. Avevo già fatto un’esperienza Oltreoceano in compagnia di Herbert Marcuse, che mi mostrò un aspetto inedito del paese. Naturalmente non avevamo soldi per le trasferte così dovevamo arrangiarci».
Istituzioni a delinquere, Fanfascismo, Il mitile ignoto, Non moriremo democristiani: più che titoli, erano fulmini che restavano impressi nell’immaginario collettivo. E che hanno una parte importante nel successo del giornale. «C’era sempre la zampata di Luigi, ma nascevano da una riflessione di gruppo. Ci riunivamo nella sua stanza piena di fumo, le parole cominciavano a vagare nell’aria finché arrivava la sua sciabolata». Come molta parte del giornalismo novecentesco, anche il Manifesto vanta una sua epopea che si distingueva per fascino ed eleganza. Le fotografie dell’epoca restituiscono un’atmosfera glamour contro cui si scagliavano molti avversari politici. Belli, seducenti, inguaribilmente snob. «Ma sei matta?», reagì una volta Pintor davanti a questa iconografia. «Ci siamo fatti un mazzo così nelle periferie. Però, è vero, possiamo sembrare scostanti. Perché pontifichiamo, appaiamo sempre troppo convinti», con un tratto pedagogico. «È vero», sottoscrive ora Castellina, «abbiamo lavorato moltissimo, con stipendi da fame: scegliemmo di avere lo stesso salario della terza categoria dei metalmeccanici, uguale per tutti. Ma è innegabile che le nostre radici fossero borghesi. Questo però significa poco: il giornale ospitava moltissime cronache della fabbrica scritte dagli operai. Vittorio Foa ci prendeva in giro: gli operai del Manifesto parlano in francese...».
Il Manifesto racconta la storia del nostro paese – i sogni, le illusioni e gli abbagli della sinistra comunista – ma è anche la storia di un gruppo di amici, diversissimi per indole e qualità, accomunati dalla stessa inclinazione antidogmatica e dal coraggio di dire spesso no. «Siamo rimasti legati fino alla fine. E fino alla fine ci siamo ripetuti che questa nostra amicizia era anche un atto politico». Cosa non rifarebbe? «Potevamo litigare di meno. Ci azzuffavamo su ogni cosa, sulla linea del giornale o su chi dovesse sceglierla. Ma il conflitto in fondo vuol dire che eravamo vivi. Pieni di voglia di fare e di inventarci cose nuove». Una definizione del Manifesto? «Un atto d’azzardo riuscito bene. Non succede sempre così».