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 2021  aprile 28 Mercoledì calendario

Intervista a Marco D’Amore

Marco D’Amore è un attore filosofo, ed è l’eroe della serie tv più amata, Gomorra. Poi, sempre per Sky Original, ha girato il film Security di Peter Chelsom, dov’è a capo «del servizio di sicurezza di telecamere delle ville dei ricchi a Forte dei Marmi. D’inverno avviene un piccolo fatto di cronaca nera, si scatenano le accuse reciproche. Io, solitario, taciturno, metto in atto una mia indagine privata».
Anche Ciro di Gomorra è un solitario, però è un sopravvissuto e un criminale, non una guardia. Come sarà la quinta e ultima serie?
«Ciro torna redivivo, in Lettonia, dove si ricostruisce una vita col diktat di non tornare indietro. Ma il nemico-amico Genny si mette sulle sue tracce. E torna in Italia. Dopo la seconda stagione volevo che Ciro sparisse, mi sentivo estraneo, al provino non me ne fregava nulla. Non immaginavo che quel personaggio mi avrebbe cambiato la vita». 
Ma perché si presentò con aria di sufficienza?
«Facevo teatro di qualità, avevo tante proposte. C’era un po’ di snobismo. E poi quando raggiungo uno status, ho la capacità di distruggerlo, è un mio malessere». 
Ciro, l’anima feroce e l’umanità spezzata. Lo detesta o lo comprende?
«Tra dieci anni sarò in grado di rispondere. Mi scrivono: non voglio che gli succeda nulla. C’è un’evoluzione continua in lui, sentivo che gli mancava una nota di calore che lo rendesse strano, storto, è violento ma si commuove, atti atroci e piccoli gesti che lo rendono umano. E ha a creato un corto circuito». 
Lei ha vissuto una Campania complicata?
«Con mio fratello sono cresciuto con chi faceva una vita normale e con chi è andato incontro a una fine disperata. Mi rivedo in C’era una volta in America di Sergio Leone. Ho avuto un’infanzia memorabile, lo dico guardando con tristezza alle nuove generazioni, alle loro utopie commerciali. Per strada di notte ce la cavavamo con gente più grande che ci ha fortificati, in un quartiere dove c’era bisogno di abilità per sopravvivere». 
Caserta negli Anni ’90?
«Era il luogo dei Casalesi. In centro scendevano orde a colonizzare la città. Al liceo si appostavano per fare la corte alle ragazze, la violenza era all’ordine del giorno. Un piccolo boss come dimostrazione di forza indicò alla sua ragazza una coetanea che ci provava con lui. La ragazza prese un giornale, lo arrotolò come un bastone e picchiò la rivale, non si lamentava, al gruppo diceva di farsi gli affari loro».
E lei?
«Io ero quello che parlava forbito, il che mi dava un certo rispetto e curiosità. Poi ero creativo, facevo ridere. Le bische, le sale gioco, il contrabbando… Il racconto della povertà lo vedevo. Al liceo c’era Roberto Saviano. Lo chiamavano l’indiano, aveva i capelli lisci fin dietro la schiena. Era piuttosto impegnato, mentre per tanti di noi la scuola occupata era il cazzeggio di non andarci. Facemmo l’autogestione più lunga d’Italia».
Saviano l’ha ritrovato anni dopo per «Gomorra».
«Lo incontrai una prima volta a Milano, quando cominciavo a recitare in un teatro mezzo disastrato dove lui venne a presentare Gomorra. C’era un grande clamore, non si ricordava di me, aveva lo stress del libro».
Il suo mentore Servillo?
«Eh, Toni... Mi ha fatto capire il lavoro duro. Mi diceva, non sai fare niente, stai qua e impara. Mi raccontò dei suoi inizi, a Campobasso fu scambiato per suo fratello Peppe, il cantante; gli capitò di recitare davanti a venti persone». 
Lei ha vissuto a Milano.
«Periodo bohémien. Vivevamo in quattro, senza materassi. Dividevamo le sigarette, facevamo le collette per comprare il pane. La fase dei poeti maledetti, un quartiere di extracomunitari, i ragazzi arabi pensavano lo fossi anch’io. Mi dicevano: anche noi fingiamo di essere italiani. E io: Ma sono napoletano!».
C’è qualcosa in cui non si sente partenopeo?
«Mi rattrista la rappresentazione del napoletano guascone. Napoli è una città scientifica, non semplicemente teatrale in modo quasi dilettantistico. Pochi sanno perché Forcella si chiama così: è una Y, una lettera pitagorica, quello era un quartiere di scienziati e matematici».
Lei è anche regista.
«La mia natura non è quella dell’attore ma del progettare storie. I miei esempi sono Welles e De Sica: attori, registi, produttori, sceneggiatori, hanno attraversato i generi, rappresentavano la genialità e a volte la cialtroneria».