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 2021  aprile 28 Mercoledì calendario

Geroglifici, bellezza segreta

«La scrittura dev’essere scrittura e non algebra; deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e l’esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell’animo, è ufficio delle parole così rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare; e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi, la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee». 
Se è vero che Giacomo Leopardi, in questo passo dello Zibaldone scritto esattamente due secoli fa alla fine di aprile del 1821, fu davvero «profetico», come commentò qualche anno fa il linguista Giuseppe Antonelli, «perché sembra già prevedere l’allora imprevedibile avvento degli emoticon», certo non avrebbe salutato l’arrivo del nuovo linguaggio del terzo millennio come un arricchimento della lingua. Anzi, spiega Mario Andrea Rigoni, uno dei massimi studiosi della figura e delle opere del poeta di Recanati, «Leopardi era in aperta polemica contro una scrittura non fatta di parole ma di simboli, segni, ideogrammi». Di più: «Era schieratissimo contro l’idea stessa che si potesse arrivare a una lingua universale». Comprensibile a tutti. 
Come gli emoji. Quelle piccole icone a colori usate nella comunicazione elettronica, riassume la Treccani, «per esprimere un concetto o un’emozione». Icone inventate nel 1999 dal gruppo di lavoro del designer giapponese Shigetaka Kurita, che partì col famoso cuoricino rosso (simpatia, affetto, amore…) per ideare e accumulare un primo set di 176 emoji, accolte come una testimonianza d’arte contemporanea al MoMA (Museum of Modern Art) di New York e moltiplicatesi via via, nel 2020, fino a un migliaio. E la cosa è andata avanti tanto da veder nascere versioni in emoji di romanzi come Moby Dick di Herman Melville o Pinocchio di Carlo Collodi e perfino una versione con le iconcine, per opera del quotidiano «The Guardian», del «discorso sullo stato dell’Unione» tenuto da Barack Obama nel 2015 davanti alle sezioni congiunte del Congresso. 
Restano dubbi: come si evolverà questo linguaggio approssimativo ed elementare ma universale, il primo a poter essere capito dalla Terra del Fuoco allo stretto di Bering, da Cape Town alla Lapponia se già vari giornali online, come «Linkiesta» del febbraio 2021, hanno segnalato il precocissimo invecchiamento di alcune «emozioni»? I geroglifici egiziani no, coi loro tre millenni e mezzo di storia non «invecchiano» mai. E circa milleseicento anni dopo la scomparsa degli ultimi «scriba» che conoscevano uno a uno tutti i geroglifici che all’inizio erano 700 (i più antichi del 3100 a.C.) saliti via via nel periodo tolemaico a circa 7.000 (settemila!), conservano il loro fascino intatto. Eterno. Al punto di spingere non solo oltre ottocentomila persone l’anno (l’Annus horribilis della pandemia dovrà ben finire…) a visitare lo straordinario Museo Egizio di Torino ma ad avere la curiosità di capire «cosa» fu quella cultura. E quale fu la sua letteratura. Prova ne siano la pubblicazione di sempre nuovi studi sull’Antico Egitto (103 libri in italiano degli ultimi cinque anni!) e l’uscita in libreria di grammatiche e manuali dedicati alla lingua dei faraoni. 
Come appunto Il geroglifico elementare. Storia, mistero e fascino della madre di tutte le scritture, Edizioni Terra Santa, scritto da Alberto Elli, ingegnere nucleare ma più ancora studioso appassionato di culture e religioni del passato, insaziabile poliglotta («Quante lingue conosco? Una quindicina, soprattutto antiche...»), autore di vari libri tra cui Armenia: arte, storia e itinerari della più antica nazione cristianae una monumentale Storia della Chiesa ortodossa Tawāhedo d’Etiopia (2.128 pagine), entrambi editi da Terra Santa.  
Ma cos’è, la scrittura egizia? Prima cosa, era una bellissima opera collettiva. Che richiedeva artigiani, scultori, pittori, artisti di alto livello. Ognuno doveva saper fare la propria parte. Lo scriba che per primo scriveva il testo sul marmo con un pennello rosso o nero disegnando il pulcino, lo sgabello, il giunco fiorito... Poi lo scultore che scalpellava il marmo seguendo la traccia dello scriba e curando con perizia ogni dettaglio, quindi il pittore che rifiniva adagiando i colori nei solchi sottili. 
Lucio Apuleio Madaurense, per tutti Apuleio, scrittore, filosofo e retore romano del II secolo d.C., ne restò incantato. E scrisse ne Le metamorfosi di «figure di animali d’ogni specie, alcuni, parole abbreviate che racchiudevano un discorso complesso; altri tutti svolazzi e circoletti come ruote o riccioli e nodi come viticci perché i profani nella loro curiosità non potessero decifrarli». Ma come «leggere», quelle raffinate delizie grafiche? 
Ecco il nodo. Guai a immaginare che il disegno di una civetta stia per la civetta, di una gazzella per la gazzella, di un coccodrillo per il coccodrillo e così via. Ci cascarono in tanti, in passato. Anche uomini di grande intelligenza e cultura, come ad esempio Leon Battista Alberti, letterato, matematico, scrittore, architetto, pedagogista e altro ancora. Il quale nel XV secolo, del quale fu uno degli uomini più influenti, «trattando delle epigrafi destinate ai monumenti funerari realizzate per sopravvivere nei secoli», ricorda Alberto Elli, «afferma che le lettere egiziane sono più adatte della comune scrittura alfabetica: mentre questa, infatti, è comprensibile solo a chi conosce la lingua, destinata comunque a diventare incomprensibile e a cadere nell’oblio, la scrittura per immagini degli Egiziani sarà intesa in ogni epoca e in ogni Paese dai sapienti». Errore. Dovuto, appunto, all’idea che l’immagine di un’oca corrispondesse a un’oca. Come nelle emoji di oggi: la manina con il pollice alzato vuol dire ok, va bene, d’accordo, e così via è comprensibile a tutti, dai turchi ai cileni, dai norvegesi ai kenioti. 
Nella scrittura egiziana antica non è così. «Il disco del sole, che si legge Ra, serve ad esempio a comporre la parola Ramses dove il sole non c’entra niente», spiega l’archeologo Christian Greco, direttore dell’Egizio. Molto grossolanamente quella meravigliosa scrittura aveva qualcosa a che fare con l’abbecedario: A come ape, B come barca, C come casa... Nella realtà, però, era tutto più complicato. E proprio il tentativo di semplificare banalizzandola una scrittura complessa, spiegano gli egittologi, ha finito per creare una confusione tale da frenare ancora la decifrazione dei geroglifici perfino dopo la scoperta del 1799, nel corso della Campagna d’Egitto di Napoleone Bonaparte, della stele di Rosetta (da Rashid, sul delta del Nilo) che pure riproduceva tre testi uguali che cantavano le lodi del faraone Tolomeo Epìfane Eucaristo in tre lingue diverse: geroglifico, demotico egizio e greco antico... Ma «perché mai uno dovrebbe studiare egittologia?», si chiede lo stesso autore. La risposta è l’amore: «Perché è una scienza bellissima!».