Corriere della Sera, 28 aprile 2021
Intervista al fotografo Elio Ciol
Ciol in friulano significa «prendi». Da un secolo è questo che fanno i Ciol: prendono dal mondo che li circonda ciò che merita di essere valorizzato e tramandato. Cominciarono i fratelli Antonio ed Emilio nel 1921, aprendo a Casarsa della Delizia un laboratorio fotografico che raccontava la vita della povera gente: ritratti, fidanzamenti, matrimoni, nascite. Nella stessa bottega proseguì Elio, figlio di Antonio, che a 92 anni ha in parte passato il testimone al secondogenito Stefano ma non ha esaurito l’incanto per i volti, il paesaggio, l’arte, l’architettura, consacrato fin dal 1949 per mezzo di immagini custodite in 218 libri e nelle più importanti collezioni, dal Victoria and Albert museum di Londra al Metropolitan di New York.
Il paese dove a 14 anni Elio Ciol già metteva in posa Pier Paolo Pasolini era talmente depresso da costringere l’artista a ingegnarsi anche come ritrattista dei morti, ripresi però in modo tale da farli sembrare vivi: «Erano gli anni in cui si andava a cercare fortuna in America, anch’io fui tentato di farlo. Capitava che morisse un nonno, un genitore o un fratello del migrante. Serviva uno scatto ricordo da spedire negli Usa. Allora i parenti mi chiamavano a fotografare la salma ancora tiepida e io ordinavo di girarla con la testa verso la finestra, affinché prendesse la luce dalla fronte al mento».
La necessità aguzza l’ingegno. Da dove nasce questa tenacia dei friulani?
«Dalla biologia, dalla povertà vissuta in letizia. Andavo a confessarmi dal parroco, don Giovanni Maria Stefanini, perché mi capitava di rubare per fame il pane e lo zucchero dalla madia di casa».
Suo padre come divenne fotografo?
«Spinto dal bisogno. Era nato nel 1894. Aveva combattuto contro gli austriaci sul Carso e in Carnia. Catturato ad Ampezzo, tornò dalla prigionia dopo un anno. La sua prima fotocamera era di legno, con treppiede, tendina nera e lastre».
E la sua?
«Uno scatolino così miserabile che ne ho rimosso la marca. Poi sarebbero venute una 6 per 9 a soffietto e una Rolleicord, sottomarca della Rolleiflex. Ma il mio sogno era la Hasselblad».
Lo ha realizzato, suppongo.
«Solo nel 1966. Costava una fortuna. Anni di privazioni per poter mettere insieme i dieci obiettivi, dal 40 millimetri al 500. Ora di Hasselblad ne ho quattro».
Indispensabili per il suo lavoro.
«Di indispensabile c’è solo la luce. E quella l’ho capita quando, dopo mezza giornata passata in camera oscura, uscivo e il sole accecante mi obbligava a socchiudere le palpebre. È così che cogli le forme delle creature, l’anatomia interna del creato. Cambia il modo di vedere».
Va ancora in camera oscura?
«L’ultima volta m’è capitato due anni fa. Me l’hanno proibito per via degli acidi. Fin da ragazzo mi sono preparato da solo il bagno di sviluppo con metol, idrochinone, solfito, carbonato e bromuro».
Il piccolo chimico.
«Il mio sogno era diventare meccanico per risolvere i problemi. Mi piaceva sperimentare. Nel 1945, con la casa bombardata, acquistai una bobina di pellicola all’infrarosso, un residuato bellico. La usavano gli Alleati per le foto aeree: toglieva la foschia. Mi accorsi che i cieli diventavano più azzurri, le nuvole più bianche, le foglie di un verde clorofilla. Ne feci una forma espressiva».
Le insegnò suo padre a fotografare?
«No, un ufficiale medico nazista. Aveva una Leica e ci dava da sviluppare i negativi. Immagini di contadini. Per la prima volta mi resi conto delle rughe sui loro volti affaticati. Scoprivo la mia gente attraverso gli occhi di uno straniero».
A chi deve il suo successo mondiale?
«A sir John Pope-Hennessy, lo storico dell’arte britannico che aveva diretto il Victoria and Albert museum e il British museum, dal quale si dimise dopo la brutale uccisione del fratello James, lo scrittore. Era venuto ad abitare a Firenze. Vide un mio libro sui capolavori di Donatello nella basilica di Sant’Antonio a Padova. Si presentò a casa mia con la sua segretaria e mi arruolò come fotografo per il catalogo che stava dedicando allo scultore rinascimentale».
Come conobbe Pasolini?
«Ero coetaneo e compagno di giochi di suo cugino, Nico Naldini. D’estate Pier Paolo veniva in vacanza dalle zie a Casarsa della Delizia, il paese della madre. Io avevo 11 anni, lui 18. La prima volta che lo vidi stava disegnando con la sanguigna un san Sebastiano trafitto dalle frecce. Cominciò a raccontarmi del martire. Conoscevo anche il padre Carlo Alberto, ufficiale di fanteria, riservato, molto duro, e il fratello Guido, partigiano cattolico della Brigata Osoppo, trucidato a 19 anni dai titini nell’eccidio di Porzûs».
L’inclinazione sessuale del poeta aveva a che vedere con l’asprezza paterna?
«Non penso. Si tratta di faccende nelle quali non sono mai entrato. Si vennero a sapere solo dopo che nel 1952 fu cacciato dal Pci per indegnità morale».
Molti ritratti di Pasolini sono suoi.
«Una domenica del 1945 ci convocò per annunciare la nascita dell’Academiuta di lenga furlana. “Di’ a Elio di portare la macchina fotografica”, ordinò al mio amico Ovidio Colussi. E così fui il ritrattista dei 17 zuvinìns riuniti a Versuta, dove il poeta e la madre si erano trasferiti».
Il primo degli scatti rimasti famosi.
«Lo fotografai quando, mentre era sul set di Medea, venne a salutare la zia Enrichetta insieme con Maria Callas, che avrebbe voluto sposarlo. L’anno prima l’avevo incontrato alla Pro civitate christiana di Assisi. “Che ci fai tu qui?”, si stupì. Gli spiegai che proprio lì nel 1963 avevo conosciuto Rita, una ragazza del luogo che due anni dopo era diventata mia moglie. Pier Paolo accettò di farsi fotografare nell’Eremo delle carceri. Il suo viso mi sembrò pieno di grazia. L’idea di girare Il Vangelo secondo Matteo gli era venuta trovandone una copia nel comodino della camera mentre era ospite della cittadella fondata da don Giovanni Rossi».
Lei perché frequentava quel luogo?
«Fu un consiglio del mio parroco: “Se vuoi imparare che cos’è l’arte, vai là”. Aveva ragione. Cominciai a realizzare servizi fotografici per Rocca, la loro rivista. Partecipavo ai convegni di studio con personaggi come Giorgio La Pira, Roger Garaudy e Piero Bargellini».
Quando fu trovato il cadavere di Pasolini a Ostia, che cosa pensò?
«Niente. Sono talmente lontano... Non ho mai voluto indagare».
Il pittore e saggista Giuseppe Zigaina sosteneva che organizzò per 15 anni con meticolosità un delitto-suicidio e indicò il come: «Ucciso a colpi di bastone».
«Conoscevo Zigaina. Ma la sua tesi del “regista martire per autodecisione”, per consegnarsi alla Storia, è solo fantasia».
Ha mai pensato di lasciare Casarsa?
«Luigi Crocenzi, il fotografo che collaborava con Il Politecnico di Elio Vittorini, mi convinse a stare a Milano per quasi un anno, alla Fondazione Arnaldo e Fernando Altimani. Mi mancavano i campi. Mi sentivo prigioniero, chiuso fra muri. L’unico sollievo era la domenica, quando Gioventù studentesca mi chiamava nella Bassa a fotografare 500 ragazzi per volta. Sento ancora nelle orecchie la voce roca di don Luigi Giussani: “Elio! Assisi”. Non ho mai capito che cosa volesse dire».
Sta meglio nel suo Friuli.
«È una bella regione, amministrata bene. Ma non vorrei essere nei panni del governatore Massimiliano Fedriga, sommerso da pressanti richieste di contributi per gli eventi culturali. Bei tempi quando si costruivano cattedrali raccogliendo le uova donate dai contadini».
Chi è stato il più grande fotografo?
«Ansel Adams, il migliore tra i fotopaesaggisti. Io non sapevo chi fosse. Voleva conoscermi dopo aver visto alcune mie opere al Metropolitan. Purtroppo è morto prima che potessimo incontrarci. Dicevano che il suo stile ricordasse il mio».
Quindi era grande quanto Ciol?
«Per carità! Riferisco giudizi altrui».
E fra i viventi chi apprezza?
«Sebastião Salgado. Un monumento».
Che cosa pensa di Oliviero Toscani?
«Per me ha un valore inferiore. Per vendere, costruisce con furbizia foto che creano scandalo e mobilitano i media».
Lei ha mai lavorato per la moda o per la pubblicità?
«No, ma avrei potuto benissimo farlo per campare. Pagavano parecchio».
Invece ha vinto il World press foto.
«Per la categoria ambiente e paesaggio: vitigni come disegni, gelsi come sculture. Non certo per reportage di guerra. Solo una volta andai in Vietnam per Il Sabato a documentare la vita di migliaia di boat people ammassati su un’isola-lager di 1 chilometro quadrato».
Ha mai realizzato nudi artistici?
«No. A che scopo? A Casarsa? Il paese è piccolo, la gente mormora».
I giornalisti possono edulcorare la realtà con le parole. Lei come la corregge?
«Con un gioco di forme, luci, contenuti. Solo che serve tempo per impararlo».
Che cosa sa di Photoshop?
«Poco. Non ho l’età, come la Cinquetti. Del ticchete tacchete sa tutto mio figlio».
È vero che William Congdon, il pittore statunitense amico di Igor Stravinsky, scoprì la fede cattolica grazie a lei?
«Fui solo il fotografo del suo battesimo di conversione, ricevuto nel 1959 ad Assisi, quando aveva già 47 anni».
Quanto c’è di spirituale nella sua arte?
«Molto, spero. La contemplazione, capire perché sono qui. Il senso religioso delle cose mi avvolge. Nel 1977 andai in Iraq per un libro fotografico. A Mosul non c’era posto in albergo. Mi misero a dormire su una branda all’aperto. Fu la più bella notte della mia vita. Il viso nel cielo. Strati di stelle, una quantità indescrivibile. Com’è grande l’infinito».
Dio come se lo immagina?
«Non ci riesco. È presente, mi pervade. Non siamo noi a comandare».