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 2021  aprile 26 Lunedì calendario

Quando a pensare il prodotto è il cliente

Le idee migliori arrivano col gioco di squadra. Di più. Possono addirittura preservare le relazioni sociali di un riccio timido e un po’ impacciato. È questo il messaggio veicolato tramite un cartoon di due minuti realizzato per la campagna di Erste Bank, istituto di credito con sedicimila dipendenti, tre milioni di clienti e tremila filiali in Europa. La società austriaca ha messo online la storia di questo spigoloso animale, escluso dagli amici per colpa dei suoi aculei. Poi con un brainstorming collettivo la soluzione, che risponde alla necessità di un abbraccio, ancora più significativo nel tempo del distanziamento fisico. In pochi mesi il video su YouTube è diventato campione di views. Non è un caso isolato. Oggi per i brand le risposte che arrivano dalla propria community possono fare la differenza. Un fenomeno di portata esponenziale, analizzato anche dal centro di ricerca inglese Longitude Research per conto di Hitachi. Dalla fotografia, che ha coinvolto oltre 500 top manager europei appartenenti ad imprese di vari comparti, emerge come nel 58% dei casi la co-creazione nel tempo comporti la sperimentazione di nuovi prodotti e servizi. Un impatto sull’innovazione nell’headquarter aziendale, ma che ha ripercussioni in tutta la filiera e nella comunità: oltre l’80% delle realtà intervistate ha riportato entrate ulteriori fino a 5 miliardi di dollari all’anno. Il 61% dichiara che la co-creazione ha aperto nuove opportunità commerciali. Le industrie più aperte al contributo esterno sono quelle legate al non-profit (45,2%). A seguire mobilità e salute (31,4%), servizi tecnologici (26,9%) e finanziari (26,6%). Ma attenzione: queste sfide si intraprendono soltanto se c’è l’investimento da parte del vertice: per il 42% dei manager solo la spinta del Ceo verso queste partnership può fare la differenza.Oltre i gruppi dominanti
Affidarsi ai clienti conviene per davvero, soprattutto in un contesto di mercato che premia il cosiddetto “smallest viable market”, ovvero il minimo mercato sostenibile, quello che costringe ad essere verticali, generando crescita. Ne parla il guru del marketing contemporaneo Seth Godin, sottolineando come queste nicchie di consumatori suddivise in tribù e sottotribù, se interpellate, diventano la chiave per aprire nuovi business. Affidarsi alla community risolverebbe anche un annoso problema legato a pregiudizi e luoghi comuni. A metterlo nero su bianco in questi giorni è stato l’Economist, che ha raccontato come la stragrande maggioranza di prodotti e servizi che adottiamo siano costruiti con un pregiudizio di base che ne inficia l’efficacia per una grande fetta della popolazione. «Il bias di progettazione è dannoso perché il mondo è progettato attorno alle figure di maschi bianchi. Chi ha le redini dell’innovazione appartiene alla categoria di progettisti, programmatori, ricercatori, ingegneri bianchi. Non ci sono scuse per non riuscire a fare trial abbastanza grandi da evidenziare differenze statistiche tra gruppi rilevanti. Ecco perché servono regole che impongano negli studi maggiore varietà», afferma il giornale inglese. Sul banco degli imputati c’è il concetto anglosassone di groupthink, ossia il pensiero di gruppo dominante e che predispone il mondo a propria immagine e somiglianza. La prova arriva dai sistemi di sicurezza dei veicoli automobilistici. Il manichino medio per i crash test, ovvero per le prove di impatto degli incidenti automobilistici, è sempre stato un uomo di corporatura media. E così le donne sono state esposte a rischi maggiori. Ma questo pregiudizio emerge anche dal pulsossimetro, la macchinetta che misura il livello di ossigeno nel sangue. Funziona illuminando il polpastrello e dovrebbe tenere conto del colore della pelle. Invece non è così e accade che nel 12% dei casi il livello di sangue nelle persone con pelle nera viene sovrastimato, mentre tra le persone bianche accade soltanto nel 4% dei casi. Con la conseguenza di livelli sballati e di ricoveri mancati per i pazienti neri.
L’avanzata dei super-consumer
Anche per andare oltre questi problemi occorre prestare attenzione ad una nuova figura a metà tra cliente e dipendente. Si tratta del superconsumer: a delineare questo identikit di consumatore connesso ed esigente che si trasforma in fan è stato Eddie Yoon, consulente strategico e autore del bestseller “Superconsumers”, pubblicato dall’Harvard Business Review. «Questi super-consumatori sono degli ambasciatori dei brand che entrano in azienda in qualità di protagonisti nelle aree di ricerca e sviluppo. Sono un numero esiguo, ma molto rilevante: in qualsiasi categoria di prodotto circa il 10% dei consumatori coprono il 50% dei profitti. In fondo questi super-consumatori sono gli acquirenti appassionati, impegnati, ossessivi ed esistono per ogni azienda. Vanno solo individuati, coinvolti, motivati», dice Yoon.
Il miglior prodotto o servizio – ma anche la migliore campagna mai realizzata – potrebbe arrivare da un cliente qualsiasi e non da un manager a libro paga dell’azienda. La difficoltà è comprendere quando questo accade. Anche i migliori possono fare passi falsi. È accaduto all’Adidas con Eugen Merher, tre anni fa 26enne studente diplomando in regia pubblicitaria alla Filmakademie Baden Wurttemberg. Merher per la sua tesi ha realizzato un video che in poco tempo è diventato virale. Al centro del racconto un pensionato con un passato da atleta, che prova a rivivere la sua passione per la corsa con il sostegno dei suoi anziani compagni ospiti della casa di riposo. Un inno alla vita, alla libertà, alla forza della terza e quarta età. Il colosso sportivo dapprima si è dissociato dalla campagna, salvo poi comprenderne il valore e rilanciarla. Anche dalla capacità di tornare sui propri passi si coglie il peso di un brand d’eccellenza.