La Stampa, 26 aprile 2021
Le Corbusier sulla pista del Lingotto
Una sfilza di pipe e un cassetto di conchiglie, una sfilata di occhiali e una valigia di cartoline, è un progetto di Le Corbusier e invece di dare le linee guida per costruire un edificio indica come tenere insieme una vita. Alzi la mano chi non ha rivalutato un oggetto di casa in questo anno confinato, chi non si è stupito per uno sguardo diverso dentro le proprie stanze fin troppo frequentate, è il senso della riscoperta che vibra dentro la mostra «Le Corbusier. Viaggi, oggetti e collezioni», da domani alla Pinacoteca Agnelli di Torino.
È un gran tour, il primo archistar conosciuto si è spostato dalla Svizzera ai Balcani, dall’Italia alla Grecia e poi in Oriente e in Sudamerica, ansioso di conoscere, curioso, ma soprattutto convinto di doversi prendere un pezzo di ogni dove. E non come ricordo, come innesco. Fin da ragazzino sapeva di aver bisogno di un motore per farsi venire delle idee: studiare, capire il mestiere, avere talento, saper inventare un mondo sopra le linee ferme della geometria non sarebbe mai bastato. Gli serviva una scintilla, la memoria di un sentimento intorno a cui poter immaginare la praticità che inseguiva. Filtrava la concretezza da un sacco di cianfrusaglie. Il padre del modernismo, tutto votato alla funzionalità, si circondava di cose, tante, trovate ovunque, significative solo per lui eppure così potenti. L’indice delle possibilità.
Il curatore di questa mostra-catalogo è un artista, Cristian Chironi, che da anni abita i luoghi disegnati da Le Corbusier e non ha ancora smesso di farlo. Uno alla volta, ognuno per un mese, un esperimento: trenta posti in dodici nazioni diverse per interpretare un’eredità, per grattare dal nome Le Corbusier la gloria e vedere che cosa è rimasto sotto. Molto. Chironi è partito dalla Sardegna, da Orani dove è cresciuto e dove Costantino Nivola, scultore e grande amico di Le Corbusier, aveva spedito dagli Usa il disegno di una casa. Al paese non avevano idea di come replicarlo. Siamo negli anni Sessanta, la gente vuole posti belli, non utili: nella provincia di un’isola le due identità ancora non coincidono. La strada parte da questa istruzione mancata e la mostra è una tappa quasi involontaria, spontanea. Mette al centro gli objets à réaction poétique (oggetti a reazione poetica), i dettagli che fanno la differenza. La chincaglieria di cui tutti abbiamo bisogno, fosse anche solo per definire come cambiamento l’istante in cui ce ne liberiamo.
Sembra una deviazione nel lunghissimo inventario delle costruzioni lasciate da Le Corbusier, ma in realtà è un punto preciso della mappa: la pista del Lingotto. La sede della Pinacoteca Agnelli e lo sfondo di una delle tante foto custodite dall’architetto, una scattata nel 1934 a cui è tornato spesso. Ha scritto del complesso che gli parlava di futuro e ha iniziato una corrispondenza con Giovanni Agnelli, il nonno dell’Avvocato. In quegli scambi è partita l’ennesima motivazione, l’ambizione di costruire un’utilitaria. In mostra ci sono gli schizzi di un’auto molto contemporanea vicino alle macchine che Le Corbusier adorava. Il prototipo non è mai stato realizzato, la Fiat aveva già le sue collaborazioni francesi, antenate di quelle attuali, stava per uscire la Simca e non si poteva impegnare su un altro fronte. Le Corbusier è passato ad altro però ha archiviato ogni passo di questa piccola ossessione. Se la è tenuta accanto, come esempio di ciò che può succedere quando si incrocia un bisogno a un progetto. Ed è questa l’anima della mostra, fatta per chi conosce il pensiero di Le Corbusier e per chi non ne ha mai sentito parlare. Tutti abitiamo memorie che accendono propositi, contatti in grado di farci scattare in avanti.
Chironi sorride dei tanti pezzi sparsi, «magari non diranno niente a chi li guarda e stuzzicheranno comunque qualche pensiero. Impossibile non rileggere l’esposizione alla luce degli ultimi mesi. Chiusi dentro casa abbiamo osservato con occhi diversi quello che ci era familiare». A qualcosa abbiamo dato un altro nome e magari un particolare ha suggerito un nuovo inizio. La cappella di Ronchamp, una delle costruzioni simbolo di Le Corbusier, parte dalla testa di un carapace raccolto tra la sabbia di Roquebrune. La trovata dei casiers, usati per delineare spazi in continua evoluzione, nasce dallo studio della comunità di Pompei. Non siamo tutti così geniali, però non è poi così difficile condividere il meccanismo: «Non è nella perfezione che troviamo la purezza, è nella capacità di aprirsi». Dopo la mostra Chironi riparte, destinazione Svizzera, a La Chaux-de-Fonds, la Maison blanche dove abitavano i genitori di Le Corbusier, il suo primo grande progetto, «anche se in questa mostra non c’è cronologia, non c’è inizio o fine, c’è la voce degli oggetti e non per forza racconteranno Le Corbusier. È un grande nome, ma qui non lo si santifica. Lo si mastica».