E poi, alla fine, il giorno che la ripaga di tutto, e, davanti, il sogno olimpico. «Sono tornata per quello. Per non dirmi, un giorno, “Vanessa, non ci hai provato”».
Ci sta provando, invece, contro ragazze che hanno la metà dei suoi anni e che quando lei vinceva l’oro mondiale, nel 2006, erano appena nate.
«Quando vado in pedana non penso alla mia età, né a quella delle mie avversarie. È normale, il mondo gira, la ginnastica non si ferma, migliorano gli esercizi, ma anche i sistemi di allenamento, oggi si fanno cose impensabili fino a dieci anni fa. Bisogna mettersi al passo. E usare la testa».
È tutto là dentro, ora?
«In un certo senso sì. Perché a trent’anni gli allenamenti devono essere calibrati, meno ore, meno quantità e più qualità, e non bisogna sbagliare le scelte».
Bella Ciao, il 25 aprile: scelta impeccabile.
«È il canto della Resistenza, ma rappresenta anche la mia forza, la mia voglia di battere le avversità, di combattere contro il dolore.
Questo 25 aprile lo avevo in testa da tanti mesi. È stato quasi tutto perfetto: l’esercizio no, qualche sbavatura c’è stata, ma il risultato mi ripaga. Ed è arrivato dopo un periodo terribile. Spero che questa medaglia sia un punto di ripartenza per me, e spero che, come ho fatto io, tutta l’Italia possa rialzarsi dopo questo periodo maledetto».
A metà marzo ha avuto il Covid.
«Un’esperienza durissima: per dieci giorni ho sempre avuto la febbre. Provavo ad allenarmi in casa, ma poi tornavo a letto distrutta. Ho impiegato oltre due settimane per guarire. Il tampone negativo è stato una liberazione».
Si allenava in casa, nel salotto e in garage. Impossibile, ma
vero.
«Ho allestito una piccola palestra durante il primo lockdown. Ma allora riuscivo almeno ad uscire in giardino e a fare qualche corsetta. Col Covid sono stata inchiodata a letto. La condizione fisica è crollata, ma la testa mi ha tenuto su. Merito anche del mio fidanzato Simone».
È il suo segreto?
«È una persona fondamentale per me, il suo apporto emotivo è stato decisivo. Viviamo insieme a Nave, vicino Brescia, lui gestisce i miei profili social. È un ex rugbista, era in squadra con i miei fratelli. Grazie a lui sono ancora qua».
Parla dell’infortunio al tendine di Achille durante il Mondiale 2017?
«Sì, esatto. Avevo mollato, per un anno non mi sono più allenata, ho pianto molto. Mi ha convinta a pensare che non poteva finire così. Ho ripreso il mio corpo, gli ho chiesto di darmi un’altra possibilità».
Qual è il limite, nella ginnastica?
«Ce n’è uno, ma nessuno di noi lo conosce. È un equilibrio impossibile tra precisione e dolore. Ma è una legge immutabile: se spingi poco, l’esercizio può risultare scialbo.
Se spingi molto, rischi l’errore e, soprattutto, l’infortunio. Bisogna mediare tra questi due estremi. È quello che faccio da una vita».
Tokyo sarebbe la sua quarta Olimpiade. A Pechino, nel 2008, era la più giovane dell’intera spedizione italiana.
«Ero piccola e spaurita. Venivo però dall’oro mondiale di Aarhus, avevo gli occhi del mondo addosso. Andò meglio a Londra, quattro anni dopo, quarta nel corpo libero a pari punteggio col bronzo. A Rio 2016 di nuovo quarta. Se parliamo di rimpianti, però, non sono questi, i miei, ma gli infortuni».
Per Tokyo ci sono due strade: la qualificazione nell’individuale, da centrare in Coppa del Mondo a Doha, a giugno, o una convocazione.
«Spero di riuscire a prepararmi al meglio per Doha e arrivarci al massimo. E spero che la gara non venga cancellata. Quello sì che sarebbe bruttissimo».
Dovesse andare male, si andrebbe direttamente ai titoli di coda della sua formidabile carriera?
«No, a questo non ho ancora pensato e non voglio pensare.
Tempo al tempo. Nella mia vita è sempre stato così: finché non decido, cerco, esploro, guardo, ragiono, cambio idea. Il futuro lo decidiamo noi, ma fino a un certo punto. Le cose accadono, chiamiamolo pure destino».