«Il nazista che mi punta il faro negli occhi e mi chiede ossessivamente di mio marito».
In quale parte del palazzo eravate?
«In cantina, al buio. Il nazista era in piedi davanti alla scrivania e accanto a lui c’era l’interprete.
Ripeteva: “Dov’è suo marito?”. “È a Regina Coeli”, rispondevo. E allora lui ricominciava daccapo, ogni tanto mi strattonava. Così per ore. A volte svenivo, per la stanchezza e perché dalle stanze accanto si levavano le grida dei torturati».
Perché i nazisti la portarono lì?
«Era la loro casa delle sevizie a Roma. Mio marito, Ernesto Borghesi, studente in medicina, partigiano nei Gap, era scappato da Regina Coeli, dov’era finito perché coinvolto nell’attentato al figlio di Mussolini, Vittorio, il 7 aprile 1944».
Lei sapeva che era evaso?
«Sì. I miei avevano un garage di auto in piazza Mignanelli e mio padre vi ricavò un soppalco che da fuori non si notava: qui trovò rifugio Ernesto. Ci eravamo sposati due mesi prima, il 5 marzo 1944, ed eravamo andati ad abitare vicino ai miei, in piazza di Spagna. Da casa nostra si poteva ammirare la scalinata di Trinità dei Monti, ma non erano tempi spensierati. Un mese dopo il matrimonio Ernesto venne arrestato».
E quando evase?
«Intorno a metà maggio, dopo circa quaranta giorni di prigionia».
E lei?
«Io continuavo a portagli la biancheria in carcere, il mio pacco veniva accettato e io avevo un alibi. Poi una sera gli uomini della Gestapo vennero a prendermi: “Dov’è suo marito?” “In carcere”, mentii. “Ci segua”».
Ricorda la data?
«Dev’essere stato il 22 maggio 1944».
E sapeva che sarebbe finita in via Tasso?
«Sì, e sapevo anche che da lì non si usciva vivi. Mi si gelò il sangue quando i nazisti vollero suonare alla porta della casa dei miei.
Salirono in casa. Può immaginare come mi sentii in quei momenti, mi misero accanto un tedesco che spiava le mie reazioni, cercarono Ernesto per venti minuti. Non lo trovarono».
Cosa sarebbe successo in caso contrario?
«Li avrebbero passati per le armi: mia madre, mio padre, i miei fratelli, la mia nipotina di pochi mesi, i miei nonni. Tutti!»
Quanti anni aveva suo marito?
«Ventisette, e io 24. Aveva partecipato all’attentato di via Rasella».
Perché suo marito era finito in carcere?
«Lo aveva tradito un compagno, l’unico di cui si fidava ciecamente: non resse alle torture».
Dove la reclusero in via Tasso?
«In una stanza al terzo piano, eravamo quattordici donne. La finestra era murata. Un po’ di aria entrava da una piccola grata ricavata dalla porta che dava sul corridoio. Fuori dalla porta sostava notte e giorno un soldato».
Chi divideva la stanza con lei?
«Partigiane. Io avevo iniziato a fare la staffetta quando i nazisti avevano occupato Roma l’anno prima. Fui accolta amichevolmente, ma sapevo che in ogni stanza c’era almeno una spia. Dissi di me il meno possibile».
Vi davano da mangiare?
«Una minestra in una ciotola dove galleggiava una buccia di patata.
Veniva servita una volta al giorno e faceva vomitare. Il bagno si poteva usare per pochissimo tempo la mattina . Era naturalmente troppo poco per i bisogni del corpo. Può immaginare il disagio di tutte. Una tortura infame».
Quanto tempo è rimasta in via Tasso?
«Dieci giorni. Per raggiungere la cantina mi facevano passare davanti alle celle, da dove fuoriusciva il sangue dei torturati ».
La interrogavano ogni giorno?
«Quasi. Quando nel 1994 vidi in tv il capitano delle Ss arrestato per l’eccidio delle Fosse Ardeatine riconobbi l’aguzzino che m’interrogava in via Tasso: Erich Priebke».
Andò al processo, nel 1996?
«Sì, volli vederlo negli occhi. Fu una cosa tremenda» .
Suo marito rimase nel soppalco fino alla Liberazione degli alleati?
«No, dopo il mio arresto fuggì anche da lì, perché mio fratello gli disse di me. Raggiunse una clinica psichiatrica in via Casalina, gestita dallo zio di un suo amico, il professor Mendicini».
E fu accolto?
«Sì, Mendicini gli mise un camice e lo fece passare per pazzo. Aiutò in questo modo tante persone».
Un Perlasca romano?
«È una storia stupenda che andrebbe raccontata prima o poi».
E lei, come ha fatto a resistere?
«La paura che potessero uccidere mio marito e tutta la mia famiglia mi ha dato una forza enorme. Non è stato facile. Un giorno un soldato mi disse che avevano portato lì mia madre. Mi spaventai ancora di più».
Non era vero?
«Erano i miei suoceri. Quando li vidi nella disgrazia provai gioia. Loro sapevano come rispondere agli interrogatori, mia madre probabilmente no».
Quando seppe che stavano per arrivare gli alleati?
«I nazisti cominciarono a bruciare le schede di n oi prigionieri, tra cui la mia. C’era un odore di bruciato penetrante che ogni tanto mi riaffiora. Capimmo che stava succedendo qualcosa. Il giorno della Liberazione di Roma riempirono due camion di prigionieri. In uno fecero salire due donne della stanza, io e la contessa Gullotti. Ma il camion ebbe un guasto, non partì, ci fecero scendere. Quelli del primo camion li portarono a La Storta e li fucilarono».
Cosa ricorda del ritorno a casa?
«Era il 4 giugno. Raggiunsi a piedi piazza di Spagna, Roma era in festa, mi trascinavo magra come un chiodo e non sapevo niente di mio marito. Trovai la gente in piazza che si abbracciava, poi vidi i miei, i miei fratelli, erano salvi. Se ci ripenso mi viene la pelle d’oca».
Con Ernesto quando vi siete rivisti?
«Il 7 giugno. Era cambiato. Le torture della banda Koch, che prelevava i prigionieri da Regina Coeli per portarli nella pensione Jaccarino di via Romagna, avevano lasciato il segno. Non ne parlò mai».
Quando è morto?
«Nel 1966, aveva soltanto 49 anni».
Cosa ha fatto nella vita?
«La sarta. Ho lavorato per grosse case di moda, anche per Valentino».
Draghi ha definito via Tasso «un luogo simbolo della nostra memoria».
«È la prima volta che un premier festeggia lì il 25 aprile. Un grande gesto. È stato nella stanza dove campeggia anche la mia foto».
Lei è mai tornata in via Tasso?
«Tante volte. E ogni volta mi ballano le ginocchia».
Ha 101 anni e ricorda magnificamente.
«Sì, però Via Tasso ha spezzato la mia giovinezza».
Ricordare aiuta?
«Ricordare è giusto, ma sapesse anche quanto è doloroso. Ho degli incubi tremendi. Mi sveglio e mi chiedo: “Davvero è successo?”».