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 2021  aprile 26 Lunedì calendario

I dimenticati delle Rsa

Il dottor Dal Bosco non è un mago. Forse è solo un uomo e un medico di buona volontà. Lo scorso 8 marzo ha riaperto alle visite le case di riposo di cui è direttore generale: l’Opera Romani di Nomi, e la “Valle dei Laghi” di Cavedine, in provincia di Trento. A seguire, altre tre strutture della zona hanno fatto proprio l’esempio. In quasi due mesi di accessi, seppure rigidamente controllati – ma in presenza, con la possibilità persino di una carezza e di un abbraccio – nessun contagio è stato rilevato. Dunque, si può.
Perché mentre l’Italia riapre e torna a respirare un’aria di quasi libertà, il mondo delle Rsa per gli anziani e per i disabili resta chiuso, e praticamente impenetrabile a chi non ci vive o lavora. Per quel che si sa, le cinque trentine sono le uniche aperte sulle circa 7.400 italiane. Se ve ne sono di aperte, ben vengano, ma nella quasi totalità non lo sono. E aggrappati alle videochiamate, costretti dietro veli di plastica o divisori di plexiglass, i parenti intravvedono i loro cari sempre più assenti, depressi, disorientati. E questi sono persino fortunati, perché spesso le strutture continuano nel divieto assoluto di ingresso, altroché camere degli abbracci. Alcuni hanno fatto scelte estreme, pur di spezzare un isolamento che ferisce e nutre solo la disperazione.
Nel frattempo, crescono i comitati che chiedono la riapertura delle Rsa. Nel frattempo, lievitano i danni “collaterali” sui ricoverati. Una ricerca della Società italiana di Neurologia per le demenze ha pubblicato su Frontiers in Psychiatry una ricerca da cui si capisce che, dopo un solo mese di chiusura delle Rsa (marzo- aprile 2020) alcune forme di demenza sono peggiorate nel 60 per cento di casi. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista della Fondazione Alzheimer Italia. Potete facilmente immaginare la situazione, 13 mesi dopo.
Il signor P., autorecluso
Il signor P. è un pensionato e ha una moglie malata di Alzheimer, ricoverata dal 2010 in una buona struttura in Piemonte. Prima della pandemia, il signor P. passava le sue giornate accanto alla moglie, ne seguiva le terapie, pranzava e cenava con lei, aiutandola a mangiare, e sapendo che prima o poi l’alimentazione naturale sarà impossibile, si passerà dunque alla Peg, la sonda che nutre il paziente. Ma insomma, una vita ancora accettabile. La sera ritorno a casa, il tempo di telefonare ai figli, chiamare un amico. La Rsa ha chiuso, di colpo, alla prima notizia di pandemia. Nel marzo 2020 il signor P. ha preso la sua decisione. «Mi ricovero». Per amore, solo per amore, si può fare una scelta così. Vi fareste ricoverare – pur sani – in un posto dove gli ospiti sono per lo più anziani, patiscono malattie neurodegenerative, gridano, o tacciono, o si lamentano. È molto faticoso, ma di recente un altro si è fatto ricoverare per poter stare vicino alla moglie disabile.
Stefania si è ripresa la madre
Quarant’anni, due figli, vive vicino a Perugia. Una madre settantenne malata di demenza, e «da quando è così, so che questi pazienti sono più spirito che corpo, che reagiscono alla voce, alla carezza. La videochiamata non significa niente per loro», anzi, disturba, spaventa, allontana. Dopo mesi di lontananza forzata, a dicembre l’ha riportata a casa, assumendo una badante. «Non potevo pensare che morisse da sola là dentro, dove pure l’assistenza era buona. E per anni, ho fatto anche la figlia dei genitori soli, quelli che ricevono poche visite, i dimenticati. Cosa sarà stato di loro?». Molti sono morti, il Covid non ha perdonato, migliaia i decessi. Oggi molte delle strutture sono semivuote perché la gente non si fida più. Stefania pensa che tenerle chiuse sia «un atto di grave disumanità. Fossero aperte, mia mamma sarebbe ancora là. Però, ricordo che già prima della pandemia, mi stupivo dei tempi di lavoro. Sa quanto tempo impiegano per la cosiddetta igiene della persona? Otto minuti». In quel tempo brevissimo devi lavare da capo a piedi un paziente, otto minuti sembra e significa una catena di montaggio, però.
Cresce la rete dei comitati
Il primo è stato quello che si chiama Felicita, Associazione per i diritti nelle Rsa. Nata a Milano, sulle ceneri del Pio Albergo Trivulzio. Per la cronaca,Felicita è una signora che all’inizio della pandemia un giorno è stata avvisata della morte del marito. L’uomo è finito nudo in un sacco, in quanto paziente Covid, da incenerire al più presto. Ora, il comitato dei parenti è in attesa del processo ai responsabili di una gestione quanto meno bizzarra dell’enorme struttura dove all’inizio di tutto vennero ricoverati pazienti Covid, e così il contagio si diffuse enormemente – circa 400 le vittime – in una popolazione naturalmente fragile, sensibile a qualunque tipo di infezione. A settembre, la diffusione di un libro bianco, poi gli appelli del presidente Alessandro Azzoni per la riapertura, «ma la situazione è sempre più disperata. Le Rsa sono chiuse a riccio, i nostri parenti sempre più soli, spesso si lasciano morire perché pensano di essere stati abbandonati». La speranza? «I prefetti. Abbiamo chiesto un incontro con quello di Roma, abbiamo già parlato con quelli di Milano, Bergamo, Cuneo, Vicenza, Firenze. Ci rassicurano, stanno facendo pressioni…». Azzoni giusto ieri parlava con una donna di Cremona, la cui madre è «ormai chiusa in sé stessa, e pesa appena 32 chili, per dire il livello di prostrazione». Eppure, basterebbe rispettare la circolare del ministero della Salute, emessa lo scorso 30 novembre.
La circolare disattesa
Che prende atto del fatto che «il distanziamento fisico e le restrizioni ai contatti sociali imposte dalle norme volte al contenimento della diffusione del contagio hanno determinato una riduzione della interazione tra individui e un impoverimento delle relazioni socioaffettive che in una popolazione fragile e in larga misura cognitivamente instabile, possono favorire l’ulteriore decadimento psicoemotivo», eccetera. Sante parole. Le «indicazioni generali»: «Debbono essere assicurate le visite dei parenti e dei volontari». No a «un troppo severo isolamento». Prego favorire i collegamenti digitali. «Le direzioni sanitarie debbono predisporre un piano dettagliato per assicurare le visite in presenza… si sollecitano soluzioni tipo “sala degli abbracci”…». E anche «al fine di ristabilire gli accessi dei visitatori in sicurezza, si raccomanda di promuovere strategie di screening immediato, come già messo in atto in alcune Regioni», ma non si capisce quali. Il documento spiega che «questi test possono essere effettuati direttamente in loco, e in caso di esito negativo, i visitatori sono autorizzati ad accedere alla struttura secondo le indicazioni fornite dal direttore della struttura». «Ma ogni Rsa fa di testa sua», spiega Dario Francolino, presidente di Orsan, che sta per Open Rsa Now e ha sede a Monza e anche dappertutto, visto che questa rete di comitati si intreccia via social, e «io vorrei scioglierla anche subito, perché vorrebbe dire che avremmo raggiunto lo scopo». Francolino racconta di aver rivisto la madre «dopo 12 mesi di lontananza, e solo perché trasferita in ospedale con un femore rotto», ma solo di sfuggita, e per un caso fortunato. Insomma, «il ministero dice cosa bisogna fare alle Regioni, che investono le Ast, che scaricano sulle rsa, che si tirano indietro», dice Azzoni, per paura di nuovi focolai, e magari per risparmiare – se non l’hanno già fatto – su personale e nuove procedure, ché quelle costano.
L’esempio del Trentino
Come sia comunque difficile arrivare a un risultato, lo sa Francesca Parolari, 50 anni, presidente dell’Opera Romani di Nomi (Trento), una Apsp, cioè azienda pubblica di servizio alla persona. Eletta tre anni fa a capo della Upipa, cioè della unione provinciale delle Rsa, è stata sfiduciata e si è dovuta dimettere quando ha chiesto che le strutture venissero riaperte, come suggeriva il ministero. «Con serietà e prudenza, sia chiaro. Non conosciamo ancora la risposta vaccinale degli anziani, bisogna quindi essere molto cauti». Ma «pochi vogliono prendersi la responsabilità», anche se «in molte situazioni, siamo sulle soglie del maltrattamento. E se un famigliare ti denuncia?», magari per sequestro di persona. Intanto, «si sono accorti che non avevo torto», altre strutture hanno chiesto il protocollo del dottor Livio Dal Bosco, nella provincia di Trento e anche da Bolzano. E persino dal Veneto, dalla Lombardia, «e comitati che vogliono così fare pressione sulle Regioni».
Il protocollo Dal Bosco
Che sarebbe l’uovo di Colombo, uno si aspetta che ci sia dentro chissà cosa. «Gestiamo il rischio», dice questo medico di 56 anni. «Gli ospiti sono tutti vaccinati, i familiari stanno per esserlo. Certo, bisogna attivare delle procedure». Rilevare la temperatura, fare lo screening e l’autodichiarazione come chiunque entri in uno studio medico. Mascherine FFp2, guanti monouso. Personale presente agli incontri, con discrezione. Un tavolino, 90 per 90, «dove si ricostruisce la socialità e si modula il distanziamento. Posso tenere la mano al mio parente, posso anche abbracciarlo, poi torno a sedermi. Ci si guarda in faccia, ci si parla». Il dottor Dal Bosco è contrario alle barriere, e anche alle stanze degli abbracci, perché «non danno sollievo né all’anziano né al parente. Anzi, creano disagio e frustrazione. Spesso l’anziano non capisce, ha problemi di udito o di vista, viene disturbato dai riflessi». E se «vogliamo convivere con il virus, come dobbiamo fare, passata l’emergenza», la strada è questa. D’altra parte, «abbiamo svolto indagini neuropsicologiche durante la chiusura, e capito i danni. Degrado delle funzioni linguistiche, decadimento di quelle mentali e motorie, tutte molto difficili da recuperare. Depressione, ansia, inappetenza, disturbi del sonno. La rivista Lancet lo ha definito come un problema di sanità pubblica». I benefici sono visibili, racconta Francesca Parolari. Visite di mezz’ora, una volta la settimana, «e se il medico ritiene che ne servano di più, lo dispone, perché gli incontri fanno parte del percorso di cura». I famigliari sono più tranquilli, vedono il miglioramento. Margherita, anziana signora che non parlava da ben 10 mesi («non una parola, con nessuno», ricorda Dal Bosco), ha infine rivisto la nipote e ha finalmente aperto bocca: «Adesso vai a prendermi un caffè, che poi noi due dobbiamo fare due chiacchiere». La nipote, sbalordita, ha eseguito.