Huffington Post, 26 aprile 2021
Biografia di Ludovica Ripa di Meana raccontata da lei stessa
Due giorni dopo averla incontrata, mi telefona e mi dice: “Credo che questa sarà la mia ultima intervista, le dispiace farmela rileggere?”. Ludovica Ripa di Meana ha ottantotto anni e ha attraversato il fiume della letteratura italiana senza mai farsi trascinare dalla corrente. Moravia ha detto che era una persona impossibile da classificare. E anche Cesare Garboli, Carlo Bo, Cesare Segre ne hanno scritto senza riuscire a incasellarla. Le espressioni usate per definirla – “onda anomala”, “voce speciale” del ventesimo secolo –, più che coagulare la sua alterità, la evocano. Ha fatto collidere versi e prosa, invettiva e preghiera, inni e lampi, Adriano Celentano e Gianfranco Contini (due a cui ha dedicato due libri).
“Non amo la parola poetessa”, dice, “preferisco la parola poeta, anche quando si tratta di una donna. Perché poeta non è solo colui o colei che fa poesia: è anche colui o colei che è fatto dalla poesia, ne è attraversato, fino al punto di essere – a sua volta – poetato. Lo diceva Contini: nella parola poeta è racchiuso anche il verbo poetare, e dunque il processo da cui nasce la poesia. Al contrario, nella parola al femminile – poetessa – l’elemento verbale si perde. Ed è un peccato. Perché alla condizione della donna non aggiunge niente, mentre alla condizione da cui nasce la poesia toglie tantissimo”.
Ha cominciato a scrivere versi prima che lo sapesse. È stato sua marito, Vittorio Sermonti, l’uomo che ha portato Dante fuori dalle accademie, a leggere il manoscritto del suo primo libro e a dirle: “Ma questi sono versi!”. Lei aveva scritto le parole una dietro all’altra, di getto. L’osservazione le fece sentire la scansione ritmica delle frasi, tirando fuori i versi dalla selva di parole. Aveva cinquant’anni. Da allora, ne ha scritti più di ventimila, gli ultimi raccolti in “Voi non sapete che non ho paura” (Garzanti): “Ma non mi sento poeta. È una definizione troppo impegnativa per me. Poeta è una parola sacra. È poeta Dante. È poeta Celan. È poeta Emily Dickinson. Io ho lavorato nell’editoria, nei giornali, nella televisione, ho scritto per il teatro, ho scritto libri. Che faccio, vado a dire che sono poeta? Mi sembrerebbe un sopruso. Una dissacrazione”.
Nel soggiorno di casa sua, ha due fotografie di Simone Weil, la donna da cui – scrive – ha imparato l’umiltà. In una, Simone Weil ha lo sguardo alto dell’intransigenza. Nell’altra, la risata timida di chi si ritrae, pronta però al gioco. Sono anche le due facce di Ludovica Ripa di Meana: severa; e improvvisamente dolce.
Come si definirebbe?
Se proprio devo, direi cantastorie: una parola più umile di poeta, sebbene nei millenni i cantastorie abbiano fatto opere magnifiche come l’Odissea e l’Iliade.
Non si sente a sua agio nemmeno in questa definizione?
È che non amo molto le etichette, specie quando sento che si appiccicano addosso a me.
Oggi si dice che anche alcuni cantanti sono poeti.
A volte è vero. Lucio Dalla, per esempio. Accostava parole che non si sono mai trovate l’una vicino all’altra, faceva convergere mondi incompatibili, e costruiva delle situazioni che ricreavano il mondo. Lo ascolti, e ti sembra di essere altrove.
Non aveva detto di temere la dissacrazione della poesia?
Ma è ovvio che non si può comparare la ‘Divina commedia’ a ‘Disperato erotico stomp’: sono due piani diversi. Eppure ci sono delle canzoni che sono prodigiose. Cos’è ‘Yesterday’ dei Beatles se non un capolavoro musicale?
In cosa consiste il prodigio?
Nel cogliere la nostalgia del presente. Dicono yesterday, ma in realtà stanno cantando il dolore di perdere l’attimo che stanno vivendo. Le grandi canzoni sono spesso così: trafitte dall’istante.
Cantante si può declinare anche al femminile.
Per fortuna. Altrimenti chissà cosa avrebbero inventato. Ci sono parole improbabili declinate al femminile, altre che diventano subito comiche. Una parola vertiginosa come profeta al femminile diventa profetessa. E c’è poco da fare, è ridicola.
E direttrice d’orchestra?
Si potrebbe dire; senz’altro è preferibile a ‘direttora’, che è orrenda. Ma perché dovremmo? La pretesa di declinare tutte le parole al femminile è cretina. Perché sostituendo una vocale con un’altra non si cambia la condizione della donna. Questo è il punto. Mentre la lingua si deturpa all’istante.
Direi che lei non è femminista.
Le risponderei che detesto la mania di rendere ogni cosa uniforme, non certo i diritti delle donne. Al mondo, non c’è un essere umano sovrapponibile a un altro, eppure l’ideologia della parità pretende di incasellare il mistero di ciascun individuo rinchiudendolo nello spazio di una quota. Lo trovo angusto.
Non mi ha risposto.
Avevo delle amiche femministe, negli anni settanta. Alcune molto brave, professionalmente affermate, accanite, indomabili. Discutevamo spesso. Una volta eravamo a Bocca Di Magra, in una casa costruita sulla cima della roccia, con una grande finestra a strapiombo sul mare. Portando all’estremo lo slogan ‘l’utero è mio e lo gestisco io’ il ragionamento arrivò alla conclusione che le donne avrebbero dovuto fare a meno degli uomini, anche in campo sessuale. A quel punto aprii la finestra e dissi: ‘Se devo rinunciare agli uomini, preferisco buttarmi di sotto’.
Quindi era contro?
Più che altro non capivo l’impostazione della battaglia, che è rimasta sostanzialmente identica fino a oggi. Trovo che, nella vita, le donne siano più temerarie, libere a coraggiose degli uomini, mentre nella retorica femminista le donne sono sempre a una sola dimensione, vittime, sottomesse, deboli, impotenti. Questa osservazione mi è valsa l’accusa di essere reazionaria, ma lo spirito non è affatto quello.
Anche lei è di sinistra?
Naturalmente.
Come naturalmente?
Naturalmente per me, intendo. A vent’anni sono stata iscritta al Partito comunista e sognavo la rivoluzione. Dopo le prime riunioni in sezione, però, me la sono data gambe. I comunisti erano di una noia mortale, con la loro pretesa di essere sempre dalla parte del bene.
Pensavo non perdonasse al comunismo quello che ha fatto ai poeti, come dice un suo verso.
Non sono così idiota da non riconoscere che il comunismo è stato anche un grande pensiero, ma la violenza che il regime comunista sovietico ha usato contro gli scrittori è vile. Ha distrutto una delle più alte letterature del mondo. Ha fatto una strage – oltre che di oppositori, di minoranze, di gente sospettata di poco fervore – anche di poeti.
La sua famiglia com’era?
Fino alla guerra siamo stati benestanti. Sono cresciuta con la servitù, la cuoca, la governante. Mio padre aristocratico, ufficiale dell’esercito, mia madre figlia di Carlo Schanzer, ministro delle Poste del governo Giolitti e poi agli esteri con Facta, finché il suo posto non lo prese Mussolini.
I suoi furono fascisti?
Ascoltai la prima volta la voce di Mussolini il giorno dell’entrata in guerra. Eravamo tutti in ansia intorno alla radio, eppure il suo tono mi parve subito da commedia. Mio padre non si schierò mai né pro né contro, si riteneva un militare fedele allo stato monarchico, chiunque lo guidasse. Mia madre, invece, dopo il il 25 luglio collaborò alla resistenza monarchica.
Come?
Ricordo che a un certo punto arrivò in casa questo signore che giocava con noi amabilmente e non metteva mai piede fuori di casa. Capii più tardi che si trattava di Giuseppe Montezemolo, il capo dei partigiani monarchici romani. Qualche giorno dopo essere andato via da casa nostra, dove mia madre lo aveva nascosto, fu catturato e portato a Via Tasso, dove fu torturato e poi fucilato alle Fosse Ardeatine.
Come faceva suo padre a essere equidistante con una moglie così compromettente?
Fu in quegli anni che i miei genitori si separarono. Mio padre era un uomo molto bello, guardi quella foto in cui è in divisa, ma non molto intelligente.
Che vuol dire, che intende per intelligenza?
L’intelligenza è la curiosità dell’altro da sé. Mio padre, invece, si ritrovava integralmente nei segni – in gran parte esteriori – della nobiltà: i simboli, le dinastie. L’appartenenza formale all’aristocrazia bastava a testimoniare, dal suo punto di vista, la propria superiorità sugli altri, che lui basava sul titolo che aveva ereditato, quello di Marchese: la classica ottusità dei nobili.
Lei ne è stata influenzata?
Mi è rimasto un insegnamento che non mi è dispiaciuto avere avuto. Quando sbagliavamo e ci lamentavamo, ci ricordava che avevamo un obbligo: ‘Essere sempre migliori del giorno prima’.
Difficile.
È un insegnamento infernale, perché ti costringe a fare un bilancio di te stessa ogni giorno. Ma corrisponde alla mia natura geneticamente mistica, che si nutre della speranza dell’altezza.
Una via sicura per essere disadattati, nel mondo così orizzontale di oggi.
Il virus ha rimesso in gioco qualcosa del nostro tempo slabbrato e concessivo. Ha incatenato il mondo con la paura. Ha ridimensionato l’illusione che si possa essere eterni.
Anche in lei?
Io ho pensato che ho 88 anni e che la mia vita l’ho vissuta. Ho sentito parlare, per tutti questi mesi, dei vecchi come la categoria dei più fragili: non nego che sia così, ma non mi sono riconosciuta nella definizione. Mi ha straziato vedere le persone morire da sole, ma non mi sono mai sentita una vittima designata da custodire.
Eppure i vecchi sono quelli che sono morti di più.
La verità è che si muore. Quando si è vecchi, ancora più facilmente. Io provo pena per i giovani, privati della loro giovinezza. Fosse per me, lo darei a loro il vaccino. Sono i giovani che devono vivere. Io quel che ho fatto ho fatto.
Non c’è anche di peggio che stare a casa?
Noi abbiamo vissuto la guerra, è vero. Non dico che sia stata semplice. Ho memoria del bombardamento di Roma. Ci nascondevamo in cantina, con i calcinacci del soffitto che ci cadevano in testa. Ho visto entrare i carri armati americani su Viale Liegi e ho l’immagine di un soldato nero che stupra una disgraziata. Per fortuna una camionetta di altri militari americani lo vide e si avventò su di lui. Lo presero a manganellate, con quei manganelli bianchi che avevano, e poi lo arrestarono. Scene feroci, tremende; ma, dopo la guerra, c’era l’Italia da ricostruire. Tutti lavoravano. Oggi no. Domani?
Lei non diventò povera per la guerra?
Povera non sono stata mai, anche se l’hanno scritto. Non ho mai capito bene perché, ma sta di fatto che la mia famiglia con la guerra perse quello che aveva. Lasciai la scuola al quinto ginnasio e andai a lavorare come segretaria, prima in un’agenzia immobiliare, poi presso due aristocratici che si erano dati all’imprenditoria.
Non ha mai rimpianto la ricchezza?
Non sono mai stata veramente ricca (eravamo benestanti) e ringrazio Dio di avermi risparmiato la sventura.
Perché sventura?
Perché essere ricco significa essere separato dalla realtà della vita attraverso il cristallo del proprio denaro.
Ma anche i poveri sono separati, quantomeno sono separati dalla ricchezza.
Non è vero. Il povero conosce la ricchezza, anche se sotto forma dell’oltraggio che subisce dall’esserne escluso. Mentre il ricco non conosce davvero la povertà, ha troppa paura di finirci dentro.
Lei però vive in questa bella casa.
Sono in affitto da trentacinque anni. I soldi miei e di Vittorio li abbiamo investiti per finanziare la sua opera in voce.
Le letture di Dante?
Sì. Sono nate per caso. Io non avevo mai letto la ‘Divina Commedia’ e gli chiesi se gli andava di leggerla per me. Lavorava alla radio, aveva quella bella voce. Mi disse che prima, però, avrebbe dovuto spiegarmi qualcosa. E così fece. Prima raccontava, e poi leggeva.
E lei?
Al decimo Canto ero travolta dal piacere e dallo stupore. Gli dissi: ’Vittorio, ma tu questa cosa devi farla in radio”.
E lui?
Mi rispose: ‘Figurati. Ci provano da quando c’è la Rai’.
Insistette?
Lo tartassai. Finché si convinse e lo propose al direttore di Radio 3, Fabio Borrelli, che invece accolse subito l’idea.
E fu un successo.
Sì. Anche se, negli ultimi anni, Vittorio a volte si intristiva e mi diceva: “Di me non resterà una delle cose più importanti: la voce”.
Di qui l’idea dell’opera in voce?
Provammo a farla finanziare dal ministero della Cultura, dall’Auditorium, da tutti quelli che potevano farlo. Alla fine, quando capimmo che non c’era niente da fare, facemmo da soli.
Per fortuna. Ora si trova anche su RaiPlay.
A Vittorio capitavano quei momenti di tristezza. Un altro fu quando finì il Purgatorio. Voleva smettere. Mi disse: “Sono stanco, Ludovica, è troppo faticoso”. E allora io, che fino ad allora non mi ero mai voluta risposare, gli dissi: “Vittorio, ti prometto che se fai il Paradiso, ti sposo”. Lo finì.
Senza religione la Divina commedia cos’è?
Un testo sacro.
Ma chi lo ha più il senso del sacro?
Io lo sento; e sento che senza sacro siamo solo dei poveracci.
E senza bellezza?
Ma la bellezza, soprattutto quella dei volti, è solo un attimo. Anche Brad Pitt, che è bellissimo, soffre la tirannia dell’istante: in un dato istante è abbagliante, e in un altro ce lo ricordavamo più bello.
Lei?
Sono stata bella. Ma, per fortuna, non lo sapevo.
E quale sarebbe la fortuna?
L’essermi risparmiata il danno collaterale, che è l’essere stronza.