il Fatto Quotidiano, 25 aprile 2021
Ritratto di Andrea Agnelli
A parte i lingotti ereditati e le sopracciglia ben coltivate, non molto altro si vedeva a occhio nudo dello scalpitante Andrea Agnelli, presidente della premiata ditta Juventus, 9 scudetti negli ultimi 9 anni, appena finito in fuorigioco con la sua bella trovata della Superlega dei super ricchi, super arroganti. Diventata in meno di 48 ore una super figuraccia. E con gli ex amici pallonari, come i fraterni Aleksander Ceferin e Urbano Cairo, che lo chiamano in pubblico tre volte Giuda e una volta serpente. Perché anche nel mondo finto del calcio, fare un golpe vero è imperdonabile. Ma provarci e fallire è molto peggio: si finisce in mutande a bordo campo con il naso rosso per la vergogna, mentre il pubblico lancia monetine di compatimento.
Credendosi predestinato a tutto, l’ancor giovane Andrea non s’aspettava la sconfitta. Tantomeno dai mille club straccioni, che mediamente valgono un polpaccio di Ronaldo, per non dire dalle moltitudini plebee dei tifosi. Che hanno osato interferire con i disegni finanziari degli squadroni più forti d’Europa. I dodici eletti, guidati da Florentino Pérez, padrone del Real Madrid, dal suo scudiero Agnelli, e seguiti dalla schiera di miliardari cinesi, oligarchi russi, sceicchi foderati di petrodollari. Cioè tutti quelli che da una decina di anni, investendo nel pallone, corrono solo per vincere, vincere, vincere, sui campi planetari della Borsa, e per necessità anche in quelli degli stadi, ipnotizzati molto più dagli affari che dal gioco del calcio, anche se fanno finta di occuparsene. E che avrebbero voluto un campionato elegante, ma soprattutto esclusivo, per moltiplicare i miliardi di euro dei diritti tv e tutti i vantaggi delle élite globali. Un campionato abitato solo dalle star milionarie del dribbling – calciatori, allenatori, avvocati e procuratori – più o meno come il sogno cafone dei privé, dove l’immaginario degli arricchiti e quello dei malavitosi si disseta dalla stessa bottiglia di Cristal millesimato, offerto dall’identica Escort.
A perfezionare il capolavoro della sconfitta, l’Agnelli Cadetto ci ha messo pure un’intervista al nuovo giornale di famiglia, Repubblica, regalandoci un pezzo pregiato del nuovo giornalismo senza paracadute, in cui non sai se è più inconsapevole l’intervistatore o l’intervistato. Il quale alle nove di sera di martedì scorso dà per scontata la nascita della Superlega (“andrà avanti al cento per cento”) che invece nella notte si scioglie in nebbia. E diventa un mal di testa la mattina dopo.
Nato nel 1975 a Torino, secondogenito di Umberto Agnelli e Allegra Caracciolo, Andrea è cresciuto nella bambagia, come si addice alla famiglia regnante, ma anche nello spavento castale, come ai tempi remoti di “Vestivamo alla marinara”, quando i piccoli Susanna e Gianni venivano tormentati dalla governante: “Don’t forget, you are an Agnelli”. Essendo per di più, dopo la morte improvvisa del fratello più grande Giovannino, anno 1997, il solo erede maschio a indossare quel cognome, nella notevole nidiata dei 150 familiari. Tutti finiti sotto l’ombra freddina del cugino maggiore, John Elkann, che dalla cima del suo trono Exor, toglie o concede incarichi in tutte le province dell’ampio regno.
Dicono gli esegeti della dinastia che Andrea volesse fin da bimbo la Ferrari, nel senso di fabbrica e scuderia. Il cugino per dispetto la promette (e prontamente la nega) a Lapo che d’abitudine le Ferrari le fonde o le schianta. In compenso, nell’anno 2010, affida ad Andrea la Vecchia Signora ancora reduce dai malanni di Calciopoli, lo scandalo delle intercettazioni, i processi a Moggi e Giraudo, le condanne, la retrocessione in Serie B, prima e unica volta nei suoi 124 anni di storia, con tutto da ricostruire per i suoi 14 milioni di tifosi depressi.
Andrea ci mette la passione e il puntiglio. Oltre a una miniera di soldi. All’epoca è trentenne, ha superato i piccoli abissi del college a Oxford, la Bocconi, l’apprendistato alla Iveco, alla Piaggio, alla Philip Morris e persino una stagione in Fiat dove fatalmente si è scontrato con il cugino. Per questo, quando ottiene l’incarico di presidente e approda allo Juventus Center di Vinovo, tra gli stanchi giocatori “che si allenavano di malavoglia”, vuole a tutti i costi trasformare il suo parcheggio dorato in un trionfo.
Sceglie Giuseppe Marotta come dirigente sportivo. Nedved vicepresidente. In panchina ingaggia prima Antonio Conte poi Massimiliano Allegri, vince scudetti e coppe. Arriva due volte in finale Champions League (perdendole entrambe). Inaugura lo Juventus Stadium. Raddoppia il budget da 200 a 500 milioni. E in cima alla torta ci mette i 300 milioni di ingaggio per CR7.
Una montagna di trionfi e una di debiti. Oltre al buco nero dei biglietti trafficati con gli ultras, anno 2014, gli incontri con i capi delle curve, il sospetto, smentito dall’iter giudiziario, di avere avuto contatti con la ’ndrangheta. Una sequenza di inchieste finite per ora con una condanna federale, e un bel po’ di cattiva stampa. Ricambiata da un silenzio ostinato, non si sa se per riservatezza torinese, spocchia, o legittima difesa.
Unico mantra dei suoi anni migliori: “La nostra storia ci obbliga a vincere”. Che vuol dire niente inutili buonismi. Nessun rimorso se si vince sempre, se si vince troppo. Accettando il peso di essere antipatici a tutti, tranne che ai propri tifosi, perché se sei simpatico, significa che stai perdendo.
Ed è questa ossessione il veleno che ha condotto l’Agnellino a immaginare la Superlega: un calcio da Playstation, da gara muscolare tra iper campioni, strapagati. Adrenalina per i nuovi tifosi che non concepiscono più le lentezze di una partita, il sacrificio, la favola di una piccola squadra che batte quella grande, e che a forza di pretendere gli highlight, finiscono per dimenticarsi del gioco. E persino degli zar che lo governano. Il piccolo golpe (per ora) è fallito. L’immenso Gigi Riva ha scritto: “Andrea Agnelli è il bambino che porta il pallone e che pretende non solo di giocare sempre, ma anche di scegliere le squadre”. E meglio non si poteva rovesciare in rete.