Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2021
L’epistolario di Debussy
L’idea di scrivere il libro Claude Debussy. Ovunque lontano dal mondo mi venne nel 2005; in quell’anno l’editore Gallimard aveva pubblicato la Correspondance di Debussy, un volume di 2.330 pagine che ha le dimensioni e il peso di un dizionario. Le 3.076 lettere che lo compongono (2.588 sono di Debussy e le restanti sono missive a lui indirizzate) si dispongono su un orizzonte in cui incontriamo parenti, amanti, amici, colleghi, critici, interpreti, editori, poeti e perfino creditori, usurai e mercanti di carbone. La storia dell’epistolario è lunga, e per bellezza, profondità ed eleganza fa onore alla grande tradizione letteraria francese e tali qualità sembrano ancora più straordinarie considerando che l’autore di queste lettere non aveva frequentato neppure la scuola elementare. Fu sua madre Victorine Manoury, l’umile figlia di un carraio e di una cuoca, a insegnargli a leggere e a scrivere; tutto il resto è l’opera di un meraviglioso autodidatta!
Prima del 2005 dell’epistolario avevamo una conoscenza parziale basata su blocchi di lettere legate per la più a singoli interlocutori come Gabriele D’Annunzio o Pierre Louÿs, o su antologie come quella di 329 lettere che Lesure aveva curato nel 1993, ma si trattava pur sempre di sparpagliati frammenti di un’esistenza. La lettura dell’edizione del 2005 suscita un’impressione completamente diversa, come dire che il tutto trascende di gran lunga la somma delle parti perché questo epistolario è anche un grande romanzo di formazione in cui intuizioni e progetti compaiono come slanci utopici e fantasie destinate a svelare attraverso i ritorni il loro significato più profondo. Le lettere – numerosissime – in cui Debussy descrive la composizione del Pelléas et Mélisande sono di questo romanzo di formazione un bellissimo esempio; in esse vediamo il compositore che confida agli amici il travaglio di un’intuizione poetica che non riesce a tradursi in musica: tentativi, sconfitte, ripartenze e d’un tratto l’illuminazione improvvisa. È così intensa e commovente la storia del Pelléa narrata giorno per giorno dalle lettere a Chausson e a Henri Lerolle che mi è parsa più eloquente di qualsiasi analisi dell’opera, al punto da farne un capitolo a sé.
Con le lettere scritte durante il soggiorno romano, dovuto al conseguimento nel 1884 del “Prix de Rome”, entriamo nel vivo del nostro romanzo di formazione e da quelle pagine affiora con tutte le sue contraddizioni e i repentini sbalzi di umore la personalità del giovane musicista. Talvolta è la meraviglia provocata da una scoperta improvvisa come quella del contrappunto di Palestrina e di Orlando di Lasso ascoltati quasi per caso in una chiesa poco discosta da Piazza Navona (quella di Santa Maria dell’Anima), talaltra l’impressione suscitata dal modo di suonare di Liszt che si è recato in visita alla Villa Medici. Il giovane Debussy è inquieto, per nulla contento di vivere a Roma che senza tanti complimenti definisce una città «piena di marmi e di pulci», ma alla sera nella sua stanza lo vediamo intento a declamare con un paio di colleghi i drammi di Shakespeare. Le lettere di quel periodo ce lo mostrano scontroso e malinconico ma basta una reminiscenza della Primavera di Botticelli, contenuta nel dipinto di un collega della Villa Medici, per fargli scrivere al libraio parigino Emile Baron una frase come questa: «Vorrei esprimere la genesi lenta e sofferta degli esseri e delle cose della natura e in seguito lo sviluppo ascendente che culmina in una incontenibile gioia di rinascere e in una nuova vita... non so se riuscirò a realizzare adeguatamente un simile progetto». Il tanto agognato ritorno a Parigi provoca nel giovane Debussy un senso di penoso smarrimento; realizza all’improvviso che quella città è il luogo di competizioni spietate e allora la descrive in una lettera al direttore della Villa Medici, per la quale già prova nostalgia, come un «Bazar à Succès», anticipando di qualche anno la definizione rilkiana di «Ville douleur». (...)
Che cosa può narrare meglio dei versi di Théodore de Banville, di Paul Bourget e di Paul Verlaine l’ardente passione che legò il musicista non ancora ventenne a una signora della buona società fornita di una bella voce come Marie-Blanche Vasnier? Debussy compose delle liriche per voce e pianoforte praticamente per tutta la vita (la prima è del 1880 e l’ultima del 1915) mostrando fin dagli esordi una rara capacità di metabolizzare musicalmente la parola poetica. Il fenomeno è complesso e anche un po’ misterioso; Debussy sa trattare musicalmente la parola poetica come pochissimi compositori in tutta la storia della musica ma il risultato non è solo quello di una perfetta esegesi musicale dei versi di Baudelaire, di Verlaine, di Mallarmé o di Tristan L’Hermite. Quei versi vengono messi in musica con una prosodia fedelissima e il loro ritmo sonoro risplende in una luce così naturale che abbiamo l’impressione di trovarci per la prima volta di fronte alla loro più segreta profondità. Descrivendo in una lettera una buona esecuzione dei Trois poèmes de Mallarmé, Debussy diceva che era tutto così lieve e perfetto che non sembrava neppure scritto. Così partendo dai versi di Théodore de Banville e dai Cinq poèmes de Baudelaire possiamo seguire il divenire dell’educazione musicale e letteraria del nostro compositore. (...) Il mistero prende corpo attraverso una strategia compositiva talmente nitida da indurre Pierre Boulez ad affermare che «Le nozioni di mistero, di poesia e di sogno acquistano in Debussy il loro valore profondo soltanto grazie alla precisione e in piena luce». In questa inscindibile complementarità di mistero e di suprema precisione sta il nucleo segreto della musica di Debussy; di quanto fosse difficile cogliere questa intima connessione il compositore era talmente consapevole da confidare all’amico Pierre Louÿs: «Sto lavorando a cose che saranno comprese solo dai nipotini del ventesimo secolo».