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 2021  aprile 25 Domenica calendario

A tavola con Diana Bracco

«La ricerca deve essere una componente essenziale del Pnrr da presentare alla Commissione di Bruxelles. L’importante è che il piano definitivo formulato dal governo Draghi contempli la dimensione della rottura e dell’innovazione radicale. Occorre operare sulle nuove frontiere tecnologiche. Una profonda transizione ecologica è una di queste. Inoltre, è fondamentale che la ricerca sia ben inserita e coordinata in un contesto comunitario. Perché non ha senso, oggi, considerarla soltanto un fenomeno nazionale. Senza questi elementi, il Paese rischia di non riuscire a risollevarsi».
Diana Bracco è nella sala di Palazzo Visconti, uno dei luoghi più nobili in senso storico ed estetico di Milano. Una porta si apre sul teatrino dove il figlio del duca Giuseppe Visconti e di Carla Erba, un giovane Luchino Visconti ancora lontano dal trasferirsi a Parigi nel 1936 per diventare l’assistente alla regia e ai costumi al Jean Renoir di Verso la vita e Una gita in campagna, metteva in scena le sue prime prove: quasi un secolo dopo questo teatrino, diventato una sala operativa di Italease, fu sottratto con gran parte dell’edificio al fallimento della banca nel 2008 dall’offerta di Diana Bracco, che abita proprio qui, in un’altra ala del medesimo palazzo, in una casa affacciata su uno dei giardini interni della Milano più nascosta e preziosa.
Nello strano tempo che costringe i commensali a tenersi a una notevole distanza, siamo seduti a una tavolata ampia, collocata per il nostro incontro conviviale in questa sala piena di luce, dove spiccano una vettura regale settecentesca del maestro della Reggia di Caserta Antonio De Dominicis, una grande piantina della storia d’Italia «dai tempi più remoti al 1911» e due cataloghi su Giorgio Morandi e i fiori e Morandi e il suo tempo appoggiati su un tavolino: «Si trovano qui perché mi hanno offerto di acquistare alcune sue opere, ci devo pensare, amo molto l’arte, ma era il mio Roberto, mio marito, il vero conoscitore e l’autentico collezionista».
A tavola c’è spazio sia per le questioni pubbliche – il tema della ricerca, uno dei nodi critici del piano che lunedì e martedì Draghi illustrerà alla Camera e al Senato per poi mandarlo a Bruxelles entro venerdì – sia per il vissuto più personale, due elementi che mai come in questo momento storico si sovrappongono e si intrecciano nella vita degli italiani: «Ho desiderio di tornare a vivere appieno. Ho voglia di dare una grande festa. Quando tutto sarà finito, l’energia rimasta finora compressa uscirà in maniera travolgente. Il connubio fra la spinta del volere tornare a vivere, a lavorare e a fare impresa e la magnitudo finanziaria espressa dal Recovery Plan può attivare un processo molto importante per il nostro Paese. Ho speranza e fiducia in Mario Draghi. Serve una svolta. Occorre integrare sempre più una visione industriale e civile in cui la ricerca sia insieme causa ed effetto di una autentica eco-sostenibilità».
In tavola arriva un aperitivo. Con una serie di stuzzichini viene servito un Gran Cuvée metodo tradizionale classico extra brut chiamato “Diana e Roberto”, dal nome suo e del marito, prodotto nella azienda agricola Il Botolo a Nizza Monferrato: «Roberto, che è mancato nel 2012, era originario del Monferrato. Comprò questa tenuta nel 2000. Almeno una volta al mese, prima di questa pandemia, andavo in Piemonte. Resta la casa di campagna per tutta la nostra famiglia: il punto di riferimento per i miei nove nipoti. Abbiamo le vigne. Più otto gatti e tre cani. Naturalmente, quando i miei due cani di città, gli schnauzer nani Lucio e Zara, arrivano a Nizza Monferrato, fanno appunto i milanesi e iniziano simpaticamente a spadroneggiare».
In tavola è servito un piatto di verdure alla griglia. E, intanto, viene portata una bottiglia di un rosso Nizza Docg, un vino con un disciplinare molto severo, tanto che solo una trentina di cantine e aziende agricole – fra cui appunto Il Botolo – possono produrlo. Nel nostro colloquio, il passaggio dalla dimensione privata alla riflessione pubblica è naturale e fluido. La Bracco è ottimista, anche se non nasconde le complessità italiane: «Non ci sarà un’altra possibilità simile. Amo molto la natura e il paesaggio. Credo nell’economia circolare. Ma, proprio perché ritengo che ogni cosa sia interconnessa, penso che l’altra grande opzione su cui debba lavorare il governo Draghi, oltre alla ricerca, sia quella dell’ambiente. Il territorio dell’Italia ha bisogno di molte cure. Penso con orrore alla frana che a febbraio, in Liguria, ha fatto crollare in mare il cimitero di Camogli, con le bare finite nell’acqua».
Questo tempo sospeso ha cristallizzato ogni cosa. Ha introdotto nelle vite di tutti la paura della morte. Ha impedito gli spostamenti. Ha portato le passioni in una dimensione di desiderio lontano: «Mi manca la Grecia. Ho nostalgia dei colori e delle profondità del mare intorno al Salto di Saffo, nell’isola di Lefkada, dove la poetessa si gettò per morire di una delusione d’amore. E mi manca la navigazione in barca nelle isole della Dalmazia e dell’Istria, con la loro natura selvaggia».
In tavola viene servito un risotto agli asparagi, buonissimo. Le isole citate dalla Bracco – e l’idea della navigazione – ricordano le origini della sua famiglia, che è di Neresine, nell’isola di Lussino, in Istria. Il suo bisnonno Marco aveva un veliero con cui commerciava il legno dei boschi dei Carpazi. Un giorno una tempesta distrusse l’imbarcazione. Una storia da romanzo di confine, quella dei Bracco, da fine degli imperi e da vite da esuli che, poi, trovano la loro identità e il loro destino. Il nonno Elio, di simpatie irredentiste, venne incarcerato nella prigione absburgica di Graz in Austria, dove conobbe alcuni prigionieri politici tedeschi che lavoravano per l’industria farmaceutica Merck. Tornato in libertà, Elio si trasferì a Milano e, grazie a quei legami personali conservati dalle sue prigioni, fondò nel 1927 la Ital-Merck. Nel Secondo dopoguerra l’azienda, che assume il cognome della famiglia, è da lui affidata al figlio Fulvio: «Mio padre Fulvio mi ha insegnato il coraggio, uno degli elementi comuni a tutti i protagonisti del Boom economico, e la dedizione per l’associazionismo, in particolare per Assolombarda e Confindustria», racconta con emozione. I Bracco – Fulvio e la moglie Anita, con le figlie Diana, Gemma e Adriana – sono un pezzo preciso dell’Italia del Boom economico. Il pezzo non ridanciano e tutto notti estive in Versilia, ma riservato e “doverista”, benché né triste né penitenziale: un profilo preciso, soprattutto, di Milano.
L’azienda si trasforma coniugando la manifattura, con la creazione del primo stabilimento nel 1947 a Lambrate, la rete commerciale e la Ricerca & Sviluppo che conta su Ernst Felder, lo scienziato svizzero scopritore di due molecole che hanno cambiato l’imaging diagnostico internazionale: lo iodamide e lo iopamidolo, brevettato nel 1974. La vera svolta è rappresentata, nel 1981, dal lancio commerciale dello iopamidolo, prima in Germania e poi in Italia: «Ha cambiato il mercato e la società. Ha intensificato la prevenzione e la cura precoce delle malattie. E, per la prima volta, gli esami fatti per rilevare le patologie non provocavano dolore al paziente», osserva. Una innovazione di rottura, da cui si è poi originato lo sviluppo che ha portato, oggi, il Gruppo Bracco a un fatturato annuo da 1,5 miliardi di euro, ottenuto per l’87% sui mercati stranieri e con un investimento in R&S pari al 13% dei ricavi.
In tavola viene portata una piccola, deliziosa, cheesecake alle fragole. E, dulcis in fundo, Diana Bracco riserva a questo nostro incontro una luce di ottimismo sull’evoluzione della società contemporanea: «Sono molto contenta per la crescita della responsabilità e del potere delle donne. In Bracco, il centro di ricerca di Colleretto Giacosa, vicino a Ivrea, è guidato dalla chimica Roberta Fretta e la fabbrica di Torviscosa, in Friuli, è diretta dall’ingegnera Laetitia Laurent. Ma, quello che più importa, è la scena pubblica. In Italia abbiamo, nel governo Draghi, otto ministre: Mariastella Gelmini, Mara Carfagna, Fabiana Dadone, Elena Bonetti, Erika Stefani, Luciana Lamorgese, Maria Cristina Messa e Marta Cartabia. Maria Chiara Carrozza è la prima donna a guidare il Cnr. Il Cern di Ginevra è diretto da Fabiola Gianotti, una delle figure che meglio contemperano la fusione fra dimensione manageriale e profondità della ricerca scientifica. Stanno gradualmente cambiando i meccanismi di selezione del potere e della responsabilità. Ed è decisamente mutata la mentalità. Alla facoltà di Chimica dell’università di Pavia, che io ho frequentato prendendo il treno tutti i giorni da Milano perché mia madre Anita giudicava sconveniente e pericoloso che una signorina si fermasse a dormire in uno dei collegi della città, eravamo in tutto cinque studentesse. Le altre quattro mi facevano impazzire quando, agli esami, si mettevano a piangere, per intenerire i professori, mentre non sapevano gli argomenti richiesti».
Arriva in tavola la grappa, sempre con l’etichetta “Il Botolo”. Dice: «Io ho avuto, nella vita, tante fortune. L’incontro e l’amore con mio marito Roberto. E, prima, la mia famiglia di origine. Il rapporto di mio padre con le donne era modernissimo: è vero che, per lui, con una moglie e tre figlie a casa era dura, ma è altrettanto vero che lui ha sempre dato compiti importanti a donne che, nell’industria del tempo, sarebbero state destinate a posizioni da segretarie. Ricordo l’influenza e il carisma che avevano in azienda le sorelle Giordana, Maria e Margherita, due ragioniere che dirigevano con grande autorevolezza la funzione commerciale e gli acquisti». E, bevendo il caffè con Diana Bracco, imprenditrice, capisci ancora una volta come l’impresa sia un seme che può incidere nella storia e generare il futuro.