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 2021  aprile 25 Domenica calendario

La Crypto-Art fa milioni

Benvenuti nei templi dell’avanguardia. La Biennale di Venezia e la Documenta di Kassel hanno ancora l’ambizione di anticipare indirizzi e orientamenti. Da qualche anno, però, queste prestigiose rassegne storiche ricordano da vicino le agenzie di viaggio, oggi condannate a una funzione residuale. O la Fortezza Bastiani del Deserto dei tartari di Dino Buzzati: un maniero svuotato della propria importanza strategica.
Nell’età della «mobilitazione totale» determinata dal web, le più grandi esposizioni d’arte contemporanea dichiarano di voler intercettare indizi del nuovo ma, in realtà, talvolta, appaiono vittime di un certo conformismo: spesso replicano stancamente liturgie convenzionali, ancorate a una logica novecentesca, inclini ad assecondare l’art system (direttori di musei, critici, mercanti, collezionisti).
Intanto, fuori c’è un mondo che, ruotando su sé stesso, si è fatto paesaggio inimmaginabile. Di queste mutazioni è testimonianza un fenomeno di notevole interesse: la Crypto Art. Ne sono protagonisti, tra gli altri, Beeple (Mike Winkelmann), Skygolpe, Fabiello Dangiuz, Giovanni Motta, Federico Clapis, autori di dipinti digitali che possono essere scambiati ma non duplicati, perché criptati grazie alla tecnologia Blockchain che li certifica e ne garantisce autenticità e unicità; l’applicazione Nft (Non Fungible Tokens), poi, consente la creazione di file collezionabili, dei quali si possono individuare proprietà, valore, tracciabilità.
Si tratta di quadri, video e testi: materiali che è possibile produrre, vendere e acquistare con criptomonete su piattaforme specifiche (SuperRare, Nitty Gateway, Hashmasks). Come il collage di Beeple, battuto da Christie’s per 69 milioni di dollari, poco meno del record d’asta del 2019 raggiunto dal Rabbit di Jeff Koons (91,1 milioni di dollari); o come il primo tweet del fondatore di Twitter, Jack Dorsey (battuto per circa 3 milioni di dollari). Sono, queste, solo le punte di un iceberg: secondo Cryptoart.io, le transizioni legate a opere di questo tipo oggi superano i 315 milioni di dollari. Una moda? No, è qualcosa di più complesso. Gli animatori di questa tendenza muovono da una consapevolezza: habitat da occupare con disinvoltura, internet e i social offrono altri strumenti per l’ideazione e la realizzazione di opere d’arte, favorendo anche inedite modalità di fruizione.

Beeple e i suoi compagni di avventura si situano su un altro piano rispetto ai net-artisti. Non scelgono il web per mettere in crisi la concezione museale dell’arte; né criticano il mercato, rompendo il patto tra artefice e acquirente; e non intendono neanche portarsi oltre il concetto tradizionale di autorialità. Inoltre, essi non si limitano a sfruttare i propri profili Instagram come vetrine dove postare installazioni presentate non nella loro compiutezza ma nella fase processuale, ricorrendo a immagini povere, a bassa intensità, instabili, imperfette, accessibili, sottratte a ogni logica di vendita, indifferenti all’economia della rarità: immagini compresse e leggere nei formati in cui sono codificate, che possono migrare, circolare con velocità, essere condivise. Voci di quella che è stata definita Expanded Internet Art, i crypto-artisti provano a saldare arte e web. Nell’assecondare la gamification da cui tutti siamo contagiati, inventano tele tecnologiche piuttosto decorative, facili da «instagrammare», d’impronta tardo-surrealista, dense di richiami agli esercizi di Salvador Dalí e Jean Tinguely, percorse da echi di cronaca. Non metadati né documentazioni di quadri, sculture, fotografie o installazioni, ma opere vere, eseguite in alta definizione, difficili da trasmettere, destinate a stare dentro l’«oltremondo», capaci di riattivare, pur se su un registro diverso, il ritorno dell’idea di aura cara a Walter Benjamin.
Simulacri policromi, privi di ogni fisicità. Illustrazioni digitali 2D e 3D, che sembrano concretizzare le lontane utopie di Guillaume Apollinaire e di Marcel Duchamp sull’arte fatta di niente. Dipinti dematerializzati che, però, a differenza della maggior parte dei lavori diffusi su internet e sui social, non vogliono reagire alla «decadenza della fede nelle idee eterne e nello spirito divino», prefigurando, «quel futuro in cui le cose a noi contemporanee si eclisseranno» (per dirla con il filosofo tedesco Boris Groys). Ma provano a far resistenza al divenire e al fluire del tempo. Sognano di rimanere. Di essere collezionate (forse, anche restaurate). E musealizzate. Il fine ultimo: mettere in crisi il sistema dell’arte e superare ogni mediazione (critico, gallerista, mercante), per riaffermare con forza l’eterna attualità di valori «troppo umani» come quelli di originalità e di non-replicabilità. È da vedere se la Biennale e Documenta sapranno porsi in ascolto di questa piccola rivoluzione estetica.