La Lettura, 25 aprile 2021
I 100 anni di Joseph Beuys
Il grande sciamano dell’arte compie cent’anni. Joseph Beuys, artista profetico e magico, spirituale e politico, scultore «sociale» e performer provocatorio, teorico della rivoluzione (culturale), difensore di una coscienza collettiva sulla Natura, ma anche personaggio magnetico e tanto influente da condizionare il Novecento e restare però una figura a suo modo solitaria, unica, forse anche scomoda nel panorama dell’arte internazionale: Beuys è tutto questo. Più semplicemente, un uomo e un artista che ha sempre creduto in due valori: l’uomo e il potere dell’Utopia.
Non è un caso che il suo pensiero (grande affabulatore, veniva ascoltato per ore durante le sue «discussioni» davanti alle lavagne) sia condensato con le sue parole: «Non possiamo permetterci di avere solo delle teorie o qualche insieme di scritti. Il nostro scopo è creare certe relazioni in modo concreto e questo per dare maggiore diffusione alle idee». Le idee come «progetto», dunque. Ma idee anche come azione, partecipazione, coscienza collettiva. Per fronteggiare i poteri economici del sistema dell’arte. Così Beuys afferma senza esitazione, quasi fosse un manifesto di libertà, diventato il suo motto simbolo: «Ogni uomo è un artista». Beuys è sempre stato un assertore della sociale democrazia diretta. E lo ha manifestato con il suo stesso corpo. Con il corpo come testimonianza di visioni spirituali, antroposofiche e politiche: un corpo che non vuol dire «io», ma che significa «noi».
In Beuys il legame tra arte e vita diventa forma: il bisogno di parlare, di comunicare, di esprimersi, anche attraverso surreali e apparentemente assurdi gesti, ha trovato piena risposta nel lavoro di un’intera vita. Lo si comprende ripensando ad alcune sue celebri azioni. Da Come spiegare i quadri a una lepre morta (1965) a quella di New York, che porta un titolo ironico e corrosivo: I like America and America likes me (1974), dichiarazione d’amore all’anima ancestrale più autentica e pura americana. Joseph Beuys non vuole toccare il suolo degli Stati Uniti, così, arrivato all’aeroporto JFK si fa trasportare in ambulanza fino allo spazio di un palazzo in disuso che il suo primo gallerista Renè Block gli aveva procurato a SoHo, si chiude in una gabbia da zoo per tre giorni e tre notti con un coyote (dai nativi americani venerato come animale sacro). Di quella esperienza restano un libro, di Caroline Tisdall, sua compagna di lavoro per anni, e un video presente nei musei ma anche su YouTube: l’artista è avvolto da una coperta di feltro, che ricorre in tutto il suo lavoro e al quale attribuisce un valore salvifico. (Beuys fu infatti abbattuto in Crimea durante la guerra, salvato e curato dai tartari col grasso e avvolto nel feltro). Lo si vede con un bastone da sciamano. Nella stanza c’è solo un pagliericcio. I due si annusano, si scrutano, dormono, il coyote si avvicina all’artista, morde il bastone, la coperta, ma non l’uomo. Beuys dà acqua e cibo all’animale. Alla fine i due convivono. Origini e civiltà s’intrecciano, si assemblano, si rispettano. E si adattano. I like America and America likes me rappresenta questo: il rispetto per la Natura.
In tutti i suoi lavori, anche in The pack (1969) c’è un’allusione allo stato di sopravvivenza permanente. Ma Beuys sottolinea soprattutto la centralità dell’individuo, dell’essere umano in ogni dimensione, anche politica e sociale: «Nel momento in cui gli artisti, gli uomini creativi si renderanno conto della forza rivoluzionaria dell’arte, in quel momento essi riconosceranno i veri obiettivi dell’arte e della scienza».
Beuys interpreta il suo tempo (oltre il tempo) e traccia una nuova e quasi sovversiva prospettiva etica per l’arte. La sua visione si afferma come uno slogan da gridare in piazza: «La rivoluzione siamo noi» (l’evoluzione siamo noi è il significato beuysiano). Questo suo slogan diventa nel 1972 anche un’opera potente e fra le più iconiche: vi si vede lo stesso Beuys che avanza verso il mondo: l’immancabile cappello di feltro in testa, un giubbotto chiaro, gli stivali e il caratteristico borsello a tracolla. La postura evoca il passo deciso dei protagonisti del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Un manifesto ideologico.
Chi ha avuto il privilegio di conoscerlo, ricorda Beuys non solo per il suo spessore culturale e la forza delle sue idee, ma anche per alcuni tratti umani come la gentilezza. E in particolare il fare solenne, quasi sacerdotale, mistico, da filosofo predicatore. Tutto gli conferiva un’aura speciale, ma a qualcuno quel carisma poteva disturbare. Così, in un incontro a Roma, nel 1972, davanti a due grandi lavagne con cui enunciava l’idea di un «uomo nuovo», dalla sala un signore interviene polemicamente: «Non abbiamo bisogno di un nuovo Gesù come lei». Beuys fa sua la sfacciata critica e la ribalta: «L’uomo che protesta ha fatto il primo passo verso l’uomo d’azione, verso l’uomo rivoluzionario». Poi aggiunge che nessun partito, nemmeno quello comunista, avrebbe potuto avere l’effetto rivoluzionario che può avere solo l’arte. Ma tra il pubblico c’è Renato Guttuso, allora il pittore più popolare d’Italia, membro del Comitato centrale del Partito comunista, che reagisce indignato: «Non abbiamo bisogno di Beuys per sapere che i partiti sono luoghi tristi. Abbiamo bisogno di qualcosa di concreto, non di sognatori, abbiamo bisogno del partito come strumento». Beuys sorride: «È un suo diritto, voglio garantire questa libertà». E dà un imprevedibile bacio a Guttuso.
Beuys era anche questo. Non c’è dubbio che il legame tra arte e vita in Beuys diventa forma, contenuto, sostanza vitale. Ancora una volta, anche in quel bacio a Guttuso, Beuys, pone sé stesso all’interno del suo lavoro artistico, intendendo sottolineare così il potere antropologico e sociale di tutta l’arte. E il suo bisogno di parlare, di comunicare, di esprimersi con qualsiasi mezzo, con ogni gesto (anche con un bacio) trova risposta nella sua stessa vita, nelle azioni di tutta la sua esistenza.
Ora, questo anniversario sta per essere celebrato in tutto il mondo con oltre 30 mostre. Principalmente, tra Germania, Austria e Svizzera, ma pure negli Stati Uniti e in Giappone. (Tutto è consultabile sul sito della galleria Ropac, che rappresenta l’artista).
Anche in Italia, Paese al quale Beuys era molto legato, sono previste alcune iniziative, ma senza concrete date e contenuti (al Castello di Rivoli a Torino, alla Fondazione Morra a Napoli, al museo Madre). La più significativa e importante è quella organizzata da Lucrezia De Domizio Durini a Bolognano, borgo vicino a Pescara, diventato grazie a lei e a suo marito Buby Durini, un autentico riferimento internazionale con una speciale attenzione a Beuys. Buby Durini e sua moglie Lucrezia non volevano essere solo collezionisti: sono diventati anche grandi mecenati, organizzatori di mostre e convegni (centinaia di artisti, critici e intellettuali sono approdati nel tempo a Bolognano), ma soprattutto si sono affermati come difensori e diffusori del pensiero beuysiano.
Alla morte di Beuys, Lucrezia De Domizio Durini scrive 33 libri sull’artista, tra cui le oltre mille pagine di Beuys Voice, imperdibile per chi voglia approfondire la figura. A questi volumi si aggiunge ora l’ultima e provocatoria fatica di Lucrezia De Domizio: Vergogna e verità, vero pamphlet dal carattere autobiografico in cui sferza il sistema dell’arte e offre nuove riflessioni sul lavoro e la vita di quello che lei ama definire come il suo «maestro». (A margine, da segnalare anche la bella biografia da Johan&Levi di Heiner Stachelhaus: Joseph Beuys. Una vita di controimmagini).
Buby Durini muore il giorno di Natale del 1994 nelle fredde acque dell’Oceano Indiano e da allora tutta la vita di Lucrezia De Domizio è dedicata praticamente solo alla difesa del pensiero di Beuys. Per questa ragione con instancabile determinazione (e nonostante, va detto, l’ottuso ostruzionismo di istituzioni locali e nazionali) è andata avanti per la sua strada creando il Paradise Museum of Joseph Beuys che sarà presentato il 12 e 13 maggio dall’architetto Maurizio De Caro, in coincidenza con la data del centenario. Un progetto che viene da lontano: una delle sue celebri discussioni — Difesa della Natura — si tenne proprio a Bolognano il 13 maggio 1984. Un momento culminante di un fondamentale lavoro artistico e filosofico, suggellato da un gesto semplice e potente: piantare la prima Quercia italiana, prototipo delle 7 mila Eichen di Kassel, nella Piantagione Paradise, tuttora attiva a Bolognano.
Per Beuys, uomo e ambiente sono inscindibili. Difendere la natura significa difendere l’uomo. Quanto è attuale e profetico Beuys? Beuys ha sempre creato immagini per alimentare le coscienze collettive. Trasmette (tutt’ora) scariche di energia per provocare in chi guarda illuminanti e salutari choc. Ma forse, la sua lezione più grande è quando insegna che la creatività è la «messa in forma» della libertà etica. E ognuno di noi deve difendere questa libertà. Perché, non bisogna mai dimenticarlo: «Ogni uomo è un artista».