Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  aprile 25 Domenica calendario

La tua casa dice chi vuoi essere

Se, davvero, avessimo intenzione di intraprendere un percorso verso la «transizione ecologica» – l’approdo cioè a economie e società sostenibili – dovremmo incominciare a ripensare radicalmente il nostro modo di «abitare» i luoghi. Abitare è una parola con un ampio campo semantico: si abita un Paese, una città, una casa. E non si tratta solo di un passivo «stare» in un luogo: abitare significa sviluppare delle abitudini, indossare abiti specifici (reali e metaforici).

In La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire (Add editore), Andrea Staid ci invita, da antropologo, a un percorso nei modi di abitare propri di altre società e culture. In dieci anni di viaggi, l’autore si è imbattuto in una molteplicità di stili dell’immaginare, del costruire, dell’abitare una casa. «Pochi secoli di civiltà industriale e di urbanesimo ci hanno abituati a vivere chiusi in gabbie di cemento. Il nostro modo di abitare va ripensato dalla constatazione che eravamo fatti per l’esterno, per montagne, praterie e foreste, che ci piaceva e forse ancora ci piace vivere all’aperto, che facevamo case temporanee, leggere, che avevamo di meno e immaginavamo di più». 
Se gran parte dell’umanità vive oggi urbanizzata e «chiusa in gabbia», molte società a cui dà voce Staid non hanno smesso di autocostruire le proprie abitazioni, in stretta relazione con l’ambiente: dalle goahti dei Sami, ricoperte di zolle erbose e tela, in Scandinavia; agli incastri di legno delle izba russe; alle tende nere dei nomadi del Medio Oriente. Le case «degli altri» sono realizzate con materiali reperibili in loco, facilmente trasportabili, ecocompatibili. Le piante la fanno da padrone, fornendo il legno per i soffitti, le fronde per la copertura, tronchi per i basamenti. Chi costruisce, spesso con l’aiuto della comunità di cui fa parte, ha in mente un piano, un progetto che include sogni e prospettive di futuro. Non si può delegare ad altri l’immaginazione della casa in cui vivere.

Nostalgie da antropologi, improponibili in una contemporaneità urbanizzata e asfittica? No. Un numero crescente di architetti e ingegneri guarda oggi con curiosità e interesse al variegato repertorio dell’abitare umano. Rivalutando quella che alcuni chiamano vegetecture; recuperando antichi materiali da costruzione come la paglia e il fango; favorendo la giusta esposizione e l’orientamento delle case verso la luce. Tradizioni e tecnologie avanzatissime possono andare d’accordo se l’obiettivo è una vera transizione e non semplicemente un nuovo camuffaggio di un’architettura aggressiva.
L’appello accorato di Staid a cambiare il nostro stile dell’abitare non è tuttavia rivolto, principalmente, agli specialisti del settore delle costruzioni. Ciascuno di noi dovrebbe riappropriarsi (quanto meno) della capacità di immaginare come abitare un luogo. Cominciando con l’osservare che la casa è in primo luogo relazione. La casa non si esaurisce all’interno, ma è inserita in un contesto che deve anch’esso essere profondamente ripensato. Le nostre città, per esempio, «dovrebbero essere coperte di piante. Non soltanto negli spazi deputati: parchi, giardini, viali, aiuole, ma dappertutto, letteralmente: sui tetti, sulle facciate dei palazzi, lungo le strade, su terrazze, balconi, ciminiere, semafori, guardrail».
Ne va ormai della nostra stessa sopravvivenza. Reimmergere le case nel mondo vegetale, renderle più «leggere», svuotarle dei mucchi di oggetti inutili, far sì che, alla fine, non lascino (quasi) tracce, come le baite alpine che collassano in una pietraia e poco più.
Nel suo classico studio sulla casa della Kabylia, in Nord Africa, Pierre Bourdieu (Per una teoria della pratica, traduzione di Irene Maffi, Raffaello Cortina, 2003) aveva mostrato che l’abitazione non è solo spazio funzionale, bensì altamente simbolico di ciò che siamo e soprattutto vogliamo essere. Per questo un progetto di futuro sostenibile non può che ripartire dall’abitare.
«Ma davvero vivete chiusi e con le porte blindate, e non avete paura?», chiese a Staid un nativo della comunità Dzao della Thailandia, abitante di una palafitta autocostruita a 2.000 metri di altitudine. Domanda imbarazzante, che capovolge le nostre idee di sicurezza. È più sicuro abitare una casa blindata o far parte di una comunità di cui si ha fiducia? Meglio riempire le città di telecamere di sicurezza o ripensare il nostro modo di abitare il mondo, di vivere con gli altri?
Diceva l’architetto e artista austriaco Friedensreich Hundertwasser che l’essere umano possiede tre pelli: la propria, gli abiti e la dimora in cui vive. Per definizione la pelle deve essere porosa, protettiva e aperta al mondo nello stesso tempo.