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 2021  aprile 25 Domenica calendario

Biografia di una scarpa

Gabriele d’Annunzio era famoso per la cura maniacale del suo guardaroba: aveva vestiti di tutti i tipi, perfino pellicce. Ma quello a cui teneva di più erano le scarpe. Ne possedeva centinaia, che andavano dai mocassini in cuoio e capretto scamosciato alle scarpe allacciate o abbottonate anche bicolori, alle calzature in vernice nera da sera, per passare poi agli stivali alti da ufficiale o quelli bassi allacciati, a vari tipi di sandali in pelle o rafia, alle scarpe estive bianche e per finire con le pantofole in tessuto ricamate. Quello che non avrebbe mai immaginato, probabilmente, è che una simile passione molti anni dopo sarebbe apparsa ad alcuni come distruttiva, non tanto per l’individuo, quanto per il pianeta.
È questo il messaggio che ci arriva da un libro-inchiesta della giornalista britannica Tansy E. Hoskins, che in Lavorare con i piedi ha raccolto decine di interviste, viaggiato in molti Paesi, contattato via internet protagonisti conosciuti e anonimi per capire che cosa sia oggi il mondo della calzatura. Il suo principale oggetto polemico è la globalizzazione, che vede un Sud produrre spesso in condizioni di grave sfruttamento e un Nord ricco consumare freneticamente ed entrambi scartare montagne di beni con gravi danni ambientali.
La produzione di oltre 24 miliardi di paia di scarpe all’anno, dovuta in gran parte all’Asia (nel 2018 la Cina da sola realizzava il 65% del totale mondiale) impatta pesantemente sulla biosfera e sul benessere di molti lavoratori. I capitoli che raccontano del duro lavoro in fabbrica e di quello a domicilio incessante delle donne in India, Nepal, Pakistan, Cina e tanti altri luoghi, come pure l’odissea dei migranti alla ricerca di un’occupazione decente, sono inquietanti. Eppure la storia delle scarpe potrebbe essere ben diversa. Si tratta di oggetti da sempre pieni di fascino, presenti nel folklore e in favole famosissime come Cenerentola, Scarpette rosse, Il gatto con gli stivali, dove rivestono un valore magico o di riscatto. Senza parlare del significato erotico e persino feticista che questi oggetti ricoprono in varie culture.

Ma come nasce una scarpa? Tutto parte da un’idea. Lo stilista disegna il modello di calzatura che vuole realizzare, scegliendo materiali, colori e accessori da applicare. Quindi si interfaccia con il modellista, incaricato di tradurre la sua ispirazione in un oggetto concreto, realizzando un prototipo. È la collaborazione tra queste due figure ad assicurare la combinazione di stile e di funzionalità richiesta dal cliente. Il primo problema produttivo è l’approvvigionamento di materie prime, che comincia con la pelle, oggi un sottoprodotto della macellazione. L’Italia è all’avanguardia nella conciatura di qualità, ma la grande parte delle pelli nel mondo sono prodotte utilizzando l’antica concia al cromo, semplice ed economica, ma tossica (rispetto a quella vegetale). E questo lo sapevano già nel Medioevo, se ritroviamo molte ordinanze che obbligavano conciatori, calzolai e tintori a lavorare fuori città a causa dello sporco e dei cattivi odori che producevano, ad esempio a Firenze e Siena. Poco sembra cambiato: oggi questi prodotti arrivano dalle «periferie» globali.
Produrre una scarpa è un’operazione complessa e diversificata, comprende decine di passaggi, tanto che le imprese in genere si specializzano in una fase, con il risultato che una scarpa compie innumerevoli viaggi prima di finire in vendita. Usualmente le produzioni di pregio cercano di mantenere l’intera filiera produttiva all’interno di una certa area, soprattutto in Italia dove esistono poli calzaturieri prestigiosi come in Veneto, Toscana e Marche; le produzioni tipo fast fashion puntano invece sull’outsourcing o fanno base interamente nei Paesi meno sviluppati. In ogni caso, si comincia con le imprese che producono la tomaia, cioè la parte superiore della scarpa. La prima delicata operazione è il taglio manuale o meccanico della pelle, affidato ai tecnici più esperti perché incide sulla qualità del prodotto e deve evitare sprechi di materiale. Seguono diverse operazioni di giunteria per rinforzare, ripiegare, orlare, applicare la fodera interna e infine cucire tra loro le diverse parti. In parallelo altre ditte, magari distanti migliaia di chilometri, realizzano il fondo, cioè la suola in cuoio resistente, il sottopiede interno e i tacchi, magari assemblando a loro volta pezzi fabbricati da terzi. Altre ditte ancora, specializzate in accessori, forniranno fibbie, nastri, ganci, borchie o strass come previsto dal modello commissionato.

A questo punto entra in gioco la fase centrale della lavorazione, l’assemblaggio della scarpa, all’interno dei calzaturifici veri e propri che hanno acquistato i semilavorati. Il montaggio avviene intorno a forme in plastica del piede, in genere predisposte su una sorta di catena di montaggio detta manovia. Si fissa il sottopiede, si applicano i rinforzi, e cioè il puntale e il contrafforte posteriore, e infine la tomaia. L’ultima fase è l’adesione del fondo: si incolla la suola al sottopiede e si inchioda il tacco. La scarpa è pronta per l’ultima fase (interna ma talvolta esterna, ancora una volta): il finissaggio, cioè rifinitura, ribattitura della tomaia, lucidatura, applicazione degli accessori e confezionamento. Finalmente la scarpa è completa e può essere spedita ai magazzini per la vendita.
Quando indossiamo le nostre scarpe nuove, forse non immaginiamo quanta strada abbiano già percorso, e quanta ne percorreranno ai nostri piedi nel tempo, perché potremo farle durare e ripararle, se sono di qualità. Non sorprende che i problemi ambientali maggiori dipendano da scarpe di bassa qualità, che durano poco e non vale la pena risistemare, e dalle onnipresenti sneaker, realizzate con procedimenti più semplici (le varie componenti della tomaia e del fondo sono termosaldate fra loro a macchina), tanto che enormi fabbriche asiatiche ne «stampano» migliaia al giorno a pochissimo prezzo. Ma sono scarpe che non possono essere aggiustate e hanno componenti sintetici non biodegradabili. Forse la qualità della produzione Made in Italy è ancora la scelta migliore, anche per il pianeta.