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 2021  aprile 25 Domenica calendario

Danilo Gallinari si racconta

Mister America è un ragazzo di 32 anni nato a Sant’Angelo Lodigiano, cresciuto a Milano e diventato grande inseguendo un sogno nella terra di James Naismith, l’inventore di un gioco dove una palla a spicchi deve finire dentro un cesto. Atlanta, casa degli Hawks, è l’ultimo approdo conosciuto di Danilo Gallinari (ora ai box per un guaio al ginocchio), nel frattempo diventato grande e pure papà. 
New York, Denver, Los Angeles, Oklahoma e ora Atlanta: Danilo, come è stato il primo impatto con la sua nuova casa.
«Giocare nell’Nba significa essere sempre in viaggio, l’ho fatto per tutta la mia carriera. Per questo conoscere la realtà del posto dove vivi è molto difficile. Ad Atlanta l’impatto con la squadra è stato positivo, ormai sono un veterano e mi hanno dato subito il ruolo di guida per giovani bravi e talentuosi. La città? Mi serve più tempo per conoscerla».
La prima cosa che cerca quando arriva in un posto nuovo?
«La casa. Anche se purtroppo, al di là della lunghezza del contratto, non sai mai quanto potrai restare con la stessa squadra».
Gioca negli Stati Uniti dal 2008, quando ha cominciato a sentirsi a casa? O comunque, meno straniero?
«Premetto che io sono una persona che si adatta facilmente ai cambiamenti, ma la svolta è stato il trasferimento da New York a Denver. Inaspettato e improvviso, in meno di 24 ore ho dovuto organizzare tutto. Passato il trauma, mi sono sentito subito a mio agio, tanto che ci sono rimasto sette anni. Ecco, a Denver, una città tranquilla e organizzata, mi sono sentito a casa mia».
Come è stato cominciare il viaggio da New York? C’era diffidenza nei confronti di un giovane italiano?
«New York significa Madison Square Garden, il mito. Lì ci sono i tifosi più esigenti. Se al draft non vieni scelto con il numero uno, sei nessuno e vieni fischiato. Io fui preso per sesto, oggettivamente non male, ma presi i fischi. Meno male che il mio agente mi aveva avvisato. In poche gare, però, sono entrato nel loro cuore, tanto che ogni volta che ci torno vengo applaudito».
Ricorda il primo allenamento?
«Come fosse oggi. C’era una certa curiosità per questo sconosciuto italiano, così vengo sfidato a una gara di tiri da uno dei veterani, Jamal Crawford. Fine allenamento, in palio c’è una cena. Tutta la squadra si ferma per la nostra sfida, vedevo i loro sorrisini, "adesso Jamal lo distrugge". E invece vinco io. E Crawford paga la cena a tutti, non solo a me. Lì mi sono guadagnato il rispetto, nonostante fossi un rookie».
Gli europei e l’Nba: prima erano delle mosche bianche, ora sono una costola importante. Che cosa ha avvicinato i due mondi?
«Fino a qualche anno fa l’Nba era un ambiente chiuso dove entravano quasi tutti giocatori provenienti dai college, poi il livello degli europei si è alzato e di conseguenza anche l’interesse degli scout, che hanno cominciato a girare in cerca di talenti. Ora è cresciuta anche la fisicità, per questo siamo sempre più numerosi».
Obama, Trump e ora Biden, i "suoi" tre presidenti. Come sono cambiati gli Stati Uniti nel frattempo?
«Sono arrivato nel 2008, primo mandato di Obama grande tifoso dei Chicago Bulls e così appassionato di basket da farsi allestire un campo alla Casa Bianca. Più che la politica, ho osservato la persona e il suo modo di comunicare. Trump non mi ha interessato molto. Biden? Troppo presto per giudicarlo».
Durante la pandemia anche un grande Paese come gli Stati Uniti ha vacillato? Come l’ha vissuta?
«Inizialmente il Paese, non l’unico, ha sottovalutato un po’ il virus non conoscendolo bene. Poi però tutti hanno preso più coscienza degli effetti del Covid e adesso la marcia verso la vaccinazione di tutta la popolazione americana sta avanzando molto velocemente.
L’esperienza personale più toccante durante il lockdown?
«Mia mamma sola a Milano in isolamento per mesi, mentre io, mio padre e mio fratello eravamo qui».
L’hanno vaccinata, si sente un privilegiato?
«No. L’Nba è stata molto chiara fin dall’inizio: i giocatori si sarebbero vaccinati solo quando tutte le altre persone in fila (per età, ruolo o occupazione) avrebbero fatto la seconda dose».
Il periodo Nba in cui le sarebbe piaciuto giocare?
«Nessun dubbio. Quella che ho vissuto e sto vivendo.
L’idolo da bambino? Non vale dire papà Vittorio.
«Michael Jordan».
Quando l’ha messo nel cassetto?
«Quando sono cresciuto e ho avuto la piena consapevolezza di chi avrei potuto essere e che cosa avrei potuto fare».
Ha firmato un contratto triennale da 60 milioni: il senso del denaro lo si scopre durante la carriera o alla fine?
«Nessuno ti regala niente, i miei genitori mi hanno insegnato molto in questo senso, Non concepisco gli sprechi e direi che oggi sono decisamente inopportuni».
Il miglior film sul basket?
«He got game, di Spike Lee».
L’avversario più tosto ?
«Kevin Durant».
Un’impresa sportiva che le sarebbe piaciuto compiere. E perché?
«Vincere un’Olimpiade. Vincere qualcosa con la maglia della propria nazione ti dà emotivamente sensazioni uniche che sarebbero difficili da replicare in qualsiasi altra competizione.
A proposito, farà il pre olimpico con l’Italia? Probabilità di andare a Tokyo?
«In questo momento con l’emergenza mondiale del Covid è difficile fare programmi».
Torniamo alle emozioni. Che cosa le mette i brividi?
«Crescere mia figlia Anastasia».
I suoi genitori sono stati fondamentali per la carriera. Che cosa prova ad esserlo ora? E dove farà crescere Anastasia, in Italia o negli Usa?
«Fare il genitore è uno dei mestieri più difficili al mondo, crescerò mia figlia con tutto l’amore possibile. Dove? Sarà una scelta difficile, visto che ora stiamo molto negli Stati Uniti».
Ha detto: "La pallacanestro è un gioco di attimi e di istinto. Devi pensare decisamente poco". Quanto c’è di istintivo nel suo modo di giocare?
«L’istinto fa parte del basket e quindi anche io faccio leva molto sui miei istinti. Chi ha gli istinti migliori vince, ma penso che questa sia una qualità che deve e può essere allenata».
L’Nba è in prima fila nella lotta alle discriminazioni. Vi sentite un modello?
«Siamo in una posizione importante perché ogni pensiero espresso ha una eco mondiale, io sono abituato a dare opinioni solo se penso di conoscere bene l’argomento di cui si parla e rispetto ed apprezzo le posizioni espresse da molti miei colleghi nell’ultimo periodo».
Sbarca in Italia e la prima cosa che nota è?
«Quanto gli aeroporti siano più piccoli rispetto a quelli americani»
Sbarca negli Usa e che cosa nota invece?
«La quantità di ristoranti con ogni tipo di cucina».
Le capita di spiegare l’Italia a un compagno di squadra? Che cosa le chiedono?
«Se sia una buona idea visitare l’Italia e io dico sempre che è il Paese più bello del mondo. Purtroppo molte persone in America hanno ancora degli stereotipi sbagliati sull’Italia, vengono probabilmente insegnati a scuola. Allora provo sempre a spiegare un po’ meglio come sia veramente il mio Paese».
Il futuro dell’Nba si chiama? Tre nomi e perché?
«Devin Booker perché è giovane ma sta già facendo cose incredibili. Ja Morant perché ha un atletismo unico nel suo ruolo. Zion Williamson perché non esiste nessun giocatore nel suo ruolo con la sua fisicità».
Est e Ovest, le sue favorite?
«Philly e Clippers»
Atlanta soddisferà la sua voglia di playoff?
«Speriamo. Stiamo facendo bene, ma la strada è ancora lunga.
In che cosa non sarà mai americano?
«Nel modo di mangiare».
In che cosa invece è sempre meno italiano?
«Per un americano prendere l’aereo è una cosa estremamente normale. Come per noi prendere l’auto. Ecco, da quando sono qui viaggio in aereo con più facilità, continuità e spensieratezza.
Milano la aspetta, è un finale già scritto?
«Vivo il presente, non ho pianificato il futuro.