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 2021  aprile 25 Domenica calendario

Biografia di Andrea Delogu raccontata da lei stessa

Andrea Delogu scioglie i nodi degli altri. Come se lei non ne fosse a sua volta un groviglio. Dall’inizio di marzo fa un podcast sulla schizofrenia, una parola che noi usiamo con leggerezza e che Andrea maneggia con la precisione delicata di chi è cresciuto in mezzo ai fragili, li conosce e, istintivamente, li ama. Ma lei, eternamente protetta da un sorriso invincibile - come se non ci fosse altro modo per impedire alle ondate di dolore di scaraventarle il cuore nei calzini - che ne ha fatto delle sue ferite? Lo racconta in questa intervista a Specchio. Uno slalom psichedelico che va dalla dislessia a Radio2, dal comunismo a Beppe Grillo, da Bruce Springsteen ai Maneskin.
Scrittrice, autrice e conduttrice, travolta da un insolito successo, cresciuta tra la diversità, l’energia e le ombre di San Patrignano, si rifiuta di guardare alle persone della sua infanzia - e a quel tempo - come a ritratti ignoti di nonni appesi alle pareti. Ce l’ha inciso sulla pelle. Niente si perde. Niente ci deve tenere imprigionati. La vita è ora e qui. Ma ancora meglio, domani e qui.
Andrea Delogu, che cosa dice la scritta tatuata sul tuo braccio?
«Dancing in the dark».
Un omaggio a te o a Bruce Springsteen?
«A Bruce. E a me. Era ed è il cantante preferito di mia madre e, anche se da bambina non lo capivo, è stato l’inizio della consapevolezza. Bruce mi ha aiutato in tanti momenti delicati della vita».
Arriva spesso la notte, per te?
«Come per tutti. Ma l’importante è appunto ballare».
Il tatuaggio è inciso con una calligrafia sottile.
«È quella di mia madre. Mi ha fatto diventare spingsteeniana e, più in generale, quella che sono».
Donna importante?
«Decisiva. Come tutta la famiglia».
Sul collo hai una farfalla.
«Quella è stata una pazzia giovanile. Sono di Rimini. D’estate ci piace esagerare. La farfalla è venuta per sbaglio».
Quanti tatuaggi hai?
«Sette».
Importanti?
«Uno. Quello di Springsteen, gli altri magari li cancello».
Quanto conta la consapevolezza nel fare le cose?
«Molto. Anche se a volte il significato non è univoco e spesso la consapevolezza non arriva del tutto. Io ho cominciato a chiedermi chi fossi abbastanza presto. Ho cercato pezzi di me. Una ragazza emiliano-romagnola che voleva capire e parlare con il mondo».
Oggi che cosa sai di te?
«So le cose che non mi piacciono».
Non è poco. Quali sono?
«Per esempio che sono piuttosto chiusa e non me ne ero mai resa conto. Do per scontato che gli altri sappiano sempre che cosa sto provando, ma non è vero. In effetti, però, so anche una cosa che mi piace molto: il mio lavoro. Lo amo. Profondamente».
Tu vai in terapia?
«Da otto anni. In Italia è considerato un lusso o la risorsa di chi non ce la fa più. Invece è un’opportunità a portata di mano. Salva la vita a molti. Con me lo ha fatto. Salvando anche chi mi sta vicino».
In che modo?
«Rompo meno le palle. Ci sono momenti in cui l’unica cosa che riesci a vedere è il tuo dolore e pensi che sia evidente a tutti. Semplicemente non è così. Ma io so di non essere sola al mondo e questo fa un’enorme differenza».
Dov’era incardinato il tuo dolore?
«Forse era un semplice dolore della crescita. Ma chissà se ho smesso di soffrire. Di una cosa però sono certa: non tornerei mai indietro neppure di un giorno».
Fuga dal passato o curiosità del futuro?
«Tu l’hai visto Indiana Jones, il Tempio di Cristallo?».
Temo di no.
«Non è grave. Non è il più riuscito della serie. Ma nell’ultima scena la cattiva incontra un alieno che le dice: se toccherai il teschio che è davanti a te avrai tutta la conoscenza dell’universo. Ma, appena sarà tua, morirai. Se non lo fai resterai viva».
Lei che fa?
«Lo tocca».
Tu che faresti?
«Lo stesso».
Sei cattiva?
«No, straordinariamente curiosa. So che la conoscenza universale è impossibile, ma la cerco spasmodicamente».
Su Instagram sei Andrealarossa.
«Dentro mi sento rossa. E mi schiarisco fino a diventarlo. È il mio colore. Ai tempi del liceo ero un’utopista. Mi sentivo comunista. Poi si perde lo slancio. Mio padre cita spesso un detto: si parte incendiari per diventare pompieri».
Di che anno è tuo padre?
«Sono disculcalica, non me lo ricordo».
Sei ancora comunista?
«In un senso più moderno. Credo che dovremmo condividere di più. Questo Paese è nostro, dovremmo occuparcene insieme. Invece viviamo come piccoli focherelli solitari che si consumano in fretta. Siamo i re dell’evasione, i signori della macchina parcheggiata sulle strisce perché non c’era posto. Figurati se il posto lo trova un anziano, o qualcuno con difficoltà motorie, quando deve attraversare. Sembra una piccola cosa. Ma è enorme. Pensare al prossimo, a chi è più fragile, dovrebbe essere un obiettivo di tutti. Ci manca l’idea di comunità. E nessuno ce lo insegna».
L’hai imparato a San Patrignano?
«Certo. Per noi la condivisione era ovvia, non serviva che l’insegnassero. Le cose erano di tutti».
"Sanpa", la serie di Netflix, è diventata un caso. Perché?
«Perché la gente si era dimenticata di quella storia e, in mesi complicati come questi, era girata da un’altra parte. Ma quelle cose succedevano e non è passato poi tanto tempo da potersene dimenticare davvero».
Aiuto e solidarietà. Ma anche botte, soprusi, morte, suicidi e tormentate anime salve. Era fedele? La serie, dico.
«Sai, quello che ho visto io è un buon lavoro, fatto da una grande produzione. Ne parlo tecnicamente».
E documentalmente?
«Chi parlava bene di Sanpa continua a farlo anche dopo la serie. E lo stesso chi ne parlava male. A me fa ancora effetto esserne stata una dei protagonisti».
È fastidioso parlarne?
«A volte. Soprattutto quando ti rendi conto che chi lo fa cerca il titolo a effetto con l’atteggiamento pruriginoso di chi vuole metterti uno stigma. Non è quello che posso raccontare io. Di quel periodo ho sempre cercato il senso. Ci ho scritto anche un libro».
La sogni, la comunità?
«Era casa mia. Lo sarà per sempre. Oggi abito a Roma e ne sono pazza, mi innamoro continuamente, tutte le volte che esco di casa. Sanpa è la mia radice, mi ha fatto sentire una bambina libera e speciale».
Prova a dire precipitevolissimente.
«Precipitevolissimevolmente. Sono dislessica. Con la parlantina me la cavo alla grande».
Scusa. Brutta gaffe.
«La dislessia è la difficoltà nel leggere. Le parole si mischiano. Ma ci ho lavorato molto. E da piccola ero una grande ascoltatrice. Mi è servito davvero».
Come si fa a confondere mamma e mucca?
«Hai letto il mio libro?».
Lo confesso: Dove finiscono le parole. Apre un modo. Come hai confuso mamma e mucca?
«Erano nella stessa frase. Dovevo dire quale fosse la parola indicata sotto un disegno con una mamma e una mucca. Le lettere cominciarono a saltare davanti ai miei occhi. In preda all’ansia dissi mucca. Era mamma».
Adesso sai contare fino a 100?
«Anche fino a 101».
Andrea dj. Maneskin o Orietta Berti?
«Entrambi».
Non vale.
«Io sono molto fan dei Maneskin. Sono arrivati a Sanremo con spocchia. E io adoro gli spocchiosi. Perché se non riescono a fare le cose che dicono di saper fare, perdono due volte. E loro hanno vinto».
Tu sei spocchiosa?
«Non direi. Ma il punto è che spesso fare gli umili è più comodo. Protegge. Non impazzisco per gli umili».
Giuliano Sangiorgi o Manuel Agnelli?
«Giuliano è un caro amico, abbiamo vissuto nella stessa casa a Parma per tre anni. Aveva perso a Sanremo ma stava per segnare una generazione con le sue canzoni, in un periodo in cui i grandi gruppi facevano ancora numeri incredibili».
Agnelli?
«Bravissimo. Davvero. E con un telaio di tutto rispetto. Complimentoni».
Radio o Tv?
«Faccio come Arbore: sono io, sia in radio sia in tv, non posso scegliere. Ma posso dire che Radio2 mi ha cambiato la vita, dandomi un senso di appartenenza. La tv forse è la cosa che so fare meglio. So come gestire uno studio. Ora con l’arrivo della visual radio appago la mia vanità».
Andrea, Letizia Moratti, da sempre molto vicina a San Patrignano, guida la sanità lombarda. C’è qualcosa che le vuoi dire?
«Ci sono stati un paio di scivoloni iniziali, ma non capendo la situazione fino in fondo non mi espongo. Però mi informo».
Chi è la Moratti per te?
«Ho un grande ricordo di lei. Mi ha anche salvato un occhio. Nei suoi confronti sento quel bene che ti nasce quando sei piccola e ti rimane».
Salvini o Meloni?
«Nessuno dei due».
Traduco liberamente il video-sfogo di Grillo che difende suo figlio Ciro accusato di stupro: se una donna non denuncia dopo otto giorni non c’è stupro. Che effetto ti ha fatto?
«Sono incazzata nera. Capisco lo sfogo di un padre, ma è una cosa di una gravità folle. Un video che mi ha gelato il sangue. Ne ho parlato poco sui social perché poi finisce che passo il limite, ma quando si tratta di uno stupro – anche se fino ad ora presunto – questi atteggiamenti sono semplicemente inaccettabili».
Il rifiuto della legge sulla omotransfobia invece è accettabile?
«No. Però la società sta cambiando. Lo vedo in mio fratello, che ha 14 anni, ma anche in Damiano dei Maneskin. Le nuove generazioni sono diverse. Sono amareggiata, ma so che arriveremo ad essere una società inclusiva e presto la politica avrà bisogno di raccattare voti e li andrà a cercare anche tra le persone che sta discriminando».
Conte o Draghi?
«Ho molta fiducia in Draghi. Però a me Conte non è dispiaciuto, si è dovuto muovere in una situazione senza precedenti. E poi, assieme al presidente Mattarella, ha firmato il mio Cavalierato del lavoro».
L’hai esposto in salone?
«No. È una mia soddisfazione personale. Mi ha fatto piangere di felicità. Ma l’ho sistemato su una parete poco visibile, magari mette a disagio qualcuno e io sono comunque una cazzona».
Non si può dire.
«Una giullare».
Andrea, su Instagram ti sei inventata un megafono social e l’hai chiamato I Giganti. Chi sono i Giganti per te?
«Tutti quelli che combattono nel silenzio e non fanno notizia perché la loro storia non è abbastanza tragica o miracolosa. Storie di mezzo, che raccontano la vita di milioni di persone su cui c’è poca luce».
Chi è stato il primo Gigante che hai incontrato?
«Un signore di Bologna, dove abitavo un po’ di anni fa. Un vicino di casa che aveva orari scombinati come i miei. Allora lavoravo in discoteca la sera e scrivevo La Collina di giorno. Mi raccontò che faceva il panettiere e il buttafuori e nel tempo che gli rimaneva cercava altri lavori, perché il suo lo aveva perso. Aveva sessant’anni. Una moglie e tre figli. Ho pensato: è un eroe. L’idea del progetto è cominciata così, poi l’ho realizzata con l’aiuto di Gianluca Comandini».
I social sono un gioco o un lavoro?
«Le due cose. Per esempio una parola al dì è un gioco. Cerco una parola, tipo Sagittabondo, e la uso per creare una frase di senso compiuto».
Che rapporto hai con l’italiano?
«D’amore profondo. Colleziono vocabolari. Recentemente, su eBay, ne ho comprato uno magnifico, del 1874. Prendo a prestito una frase della splendida Franca Leosini: io non lo conosco l’italiano, lo posseggo. Quando gliel’ho sentito dire ho provato un brivido clitorideo».