Specchio, 25 aprile 2021
Olga Soltesz: «Con la mia racchetta ho aperto la strada a Nixon»
«Sono un giornalista italiano, lei è Olga Soltesz?». Più tardi la signora – che oggi vive ad Orlando, in Florida – ci dirà che quelle poche parole le hanno fatto improvvisamente riavvolgere il nastro della vita, riportandola indietro di mezzo secolo, quando i media di tutto il mondo le facevano la corte per un’intervista o anche solo una dichiarazione. Olga Soltesz è una ex professionista del tennis da tavolo, con trascorsi nella nazionale Usa, ma è soprattutto una delle protagoniste di quella epocale impresa che è passata alla storia come la "diplomazia del ping pong", primo atto dell’inizio dei rapporti bilaterali tra gli Stati Uniti e la Cina del dopoguerra. «Avevo 17 anni, ero troppo piccola, non potevo certo rendermi conto che tra le mani che avrebbero scritto una pagina di storia ci sarebbe stata anche la mia», dice con l’ingenuità dell’adolescente che era nel 1971, quando nelle sue mani voleva solo stringere una racchetta.
Nella primavera di quell’anno la nazionale americana di ping pong stava disputando a Tokyo il 31° Campionato mondiale di tennistavolo, e a sorpresa arrivò un invito dalla squadra della Repubblica Popolare Cinese a visitare la Cina. «Molti di noi si erano organizzati per prolungare la permanenza e visitare il Giappone, l’ultimo giorno del torneo arrivò invece l’invito di Pechino… Rimanemmo sbalorditi, i cinesi peraltro erano i migliori giocatori al mondo nel nostro sport, li vedevamo un po’ come marziani, in tutti i sensi». Data la minore età, Olga fu costretta a chiedere il permesso ai genitori, ungheresi scappati negli States dopo l’invasione sovietica del 1956. «Avevo paura che mi dicessero di no, loro erano fuggiti, dal comunismo, e io nel comunismo ci stavo per rimettere piede. Invece mi diedero il permesso, e mi dissero "vedrai, sarà un’esperienza interessante"». Il 10 aprile 1971 i quindici membri della delegazione diventano i primi americani (al netto di qualche raro precedente) a mettere piede nella Cina popolare da quando il Partito Comunista Cinese di Mao Zedong aveva preso il potere, nel 1949.
«Appena arrivata, ho percepito che c’era qualcosa di diverso: una certa austerità, non ci facevano andare in giro da soli e controllavano ogni spostamento. Gli abitanti sembravano atterrati dalla Luna, erano tutti vestiti allo stesso modo, in uniforme blu o grigia, e militari in divisa. Era il comunismo. Noi invece eravamo tutti diversi, vestiti con le gonne e con abiti colorati. Per loro eravamo noi, quelli atterrati da un altro pianeta». Olga e compagni hanno dovuto fare anche i conti con le siderali distanze nelle abitudini di tutti i giorni, a partire dal cibo. «Ci aspettavamo di mangiare i migliori involtini primavera della nostra vita, altro che Chinatown, e invece qualsiasi cosa ci offrissero era praticamente impossibile da mandare giù. Per tutto il viaggio non ho mangiato altro che noccioline». E poi la tensione, costante: «Non era paura, anche perché eravamo una delegazione, giravamo insieme, c’era sempre l’interprete e il nostro presidente che ci rassicurava. Un po’ di tensione però sì, questo è innegabile, ci prendevano da una parte ci portavano dall’altra, per strada c’era molto poco, non c’erano ristoranti o locali, fra noi ripetevamo "speriamo di tornare presto a casa"». Sempre sotto l’occhio vigile del Partito, la delegazione visita Pechino e Shanghai, tra incontri ufficiali ed esibizioni sportive. «Alla nostra prima partita ci siamo trovati davanti 18 mila persone, una cosa incredibile, in America il ping pong non era così popolare, per loro invece è una specie di religione. Sono stata la prima a giocare, può immaginare l’agitazione, ed era soltanto un’amichevole». Ha vinto? «Non ricordo, probabilmente no, immagini uno stadio con due tavoli in mezzo e 18 mila persone attorno, ricordo solo le gambe che andavano per conto loro».
In quei giorni la squadra ha vissuto in una sorta di mondo sospeso, tra involtini Primavera inesistenti, folle oceaniche e gente in uniforme. Quando gli occhi e i corpi avevano quasi cominciato ad abituarsi, la delegazione fu portata all’altra estremità del ponte, quello che dalla Cina continentale riporta a Hong Kong, dove ad attenderli c’erano migliaia di reporter e telecamere. «Oh my God - dissi - cosa sta succedendo? È stato in quel preciso momento che abbiamo capito che saremmo entrati nei libri di storia». La scia di flash non li ha lasciati per molto tempo ancora: una volta tornata a Orlando, Olga viene inseguita da tv, radio, giornali, riviste e tanti curiosi per mesi, anzi per anni. «Accendevo la televisione e mi vedevo a ogni ora, come si fa a dimenticarlo?» Così come confessa di non poter dimenticare il cheeseburger sul volo di ritorno da Hong Kong: «Il più buono della mia vita». Furono Soltesz e i suoi compagni a spianare la strada al presidente Richard Nixon, per la sua prima visita nel Dragone del 1972, furono loro – un pugno di giovani uomini e donne che giocavano a ping pong – il primo ponte politico tra due realtà che non sembravano dovessero ancora toccarsi. La Guerra Fredda era nel suo pieno. «Quando sono tornata a casa, mi sono resa conto della differenza tra noi e loro, in qualche modo ho capito, rielaborato e compreso quello che i miei genitori mi dicevano del comunismo e della negazione delle libertà. E quanto grande è l’America».
Da allora però la Cina è cambiata (ma non il regime) e Olga se ne è resa conto di persona quando nel 2006 è stata invitata di nuovo in occasione del 35° anniversario della "diplomazia del ping pong". «È stato il viaggio più incredibile della mia vita, anche perché ero adulta e potevo realizzare e godermi tutto in modo nuovo, più ampio. La Cina era completamente diversa da quella del 1971, vestivano tutti diversamente, indossavano abiti colorati, c’erano tanti negozi, ristoranti di classe e alberghi di lusso, sembrava esserci anche più libertà, ma forse quella era una sensazione apparente. Ci hanno trattato come se fossimo state star di Hollywood, andavamo in giro a bordo di autobus con scritto ‘Ping Pong Diplomacy’ sulle fiancate, perché in Cina la "diplomazia del ping pong" era ancora una specie di mito».
L’esperienza si sarebbe dovuta ripetere quest’anno per il 50° anniversario, ma il Covid lo ha impedito. «Con i miei compagni di nazionale ci sentiamo, le tre donne stanno ancora bene, eravamo le più giovani, gli uomini ci hanno lasciato quasi tutti perché erano un po’ più grandi. Sarebbe bellissimo ripetere quel viaggio, magari il prossimo anno, ma non mi voglio fare illusioni». Il punto è capire non solo se la pandemia permetterà di tornare a viaggiare, specie in Cina, ma se i rapporti tra Washington e Pechino lo renderanno possibile, visto il loro inesorabile logoramento. Qualcuno nell’amministrazione di Joe Biden ha persino avanzato l’ipotesi di boicottare le Olimpiadi invernali di Pechino del 2022. «Sarebbe orribile, uno sbaglio imperdonabile», dice Olga, secondo cui la soluzione ai problemi tra i due Paesi la suggerisce proprio la sua storia. «Lo sport unisce anche quando la politica divide, è un campo neutro come la Svizzera, non ci sono nemici, lo spirito guida è quello dell’agonismo e della sana competizione, ci si diverte». Ce ne sarebbe tanto bisogno, oggi, di una nuova "diplomazia del ping pong". «Ovviamente, nel caso, io ci sono».