La Stampa, 25 aprile 2021
Lunga intervista a Marta Cartabia
«Superiamo la tentazione dello scontro continuo. In una data così simbolica per l’Italia, che segna il tempo della Liberazione, della rinascita, della ricostruzione, proprio la Giustizia può e deve diventare il terreno sul quale ritrovare lo spirito di unità nazionale. Le diversità resteranno, come nella stagione che portò alla nascita della Costituzione, ma come allora si può provare a ricomporre le fratture su progetti precisi in nome di uno scopo più grande. Deve essere molto chiaro che senza riforma della Giustizia, niente fondi del Recovery. E per un compito così importante, serve responsabilità e volontà di tutti». Dopo più di due ore di conversazione con Marta Cartabia, ho infine capito cos’è il “Metodo” che porta il suo cognome. Una fede incrollabile nella ragione e nella forza del diritto, una ricerca irriducibile della conciliazione tra gli opposti, da impastare con i valori costituzionali e i principi repubblicani.
È in nome di questi, oggi, che la ministra della Giustizia celebra il 25 aprile tratteggiando una saldatura ideale tra quello che successe nel ‘45, quando un popolo esausto e diviso ritrovò nella Resistenza al nazifascismo le ragioni del suo stare insieme, e quello che succede oggi, quando un’Italia stremata per un’altra guerra, quella contro il virus, deve riscoprirsi nazione attraverso le riforme condivise, senza le quali i 191 miliardi del Recovery, il nostro Piano Marshall, resteranno nei caveaux di Bruxelles. Mi resta solo un dubbio, alla fine della nostra intervista nel suo ufficio di Via Arenula, che è stato il campo di Agramante di tutte le battaglie tra magistratura e politica da Tangentopoli in poi: Cartabia ci crede davvero? È davvero convinta che si possa riformare la giustizia e raggiungere una tregua alla “guerra dei trent’anni”, in un governo votato da Berlusconi e Salvini?
Lei giura di sì, «intorno a obiettivi concreti, anche se - specifica – non esistono bacchette magiche». E io vorrei crederle. Ma non ci riesco. Al di là delle sue migliori intenzioni.
Ministra Cartabia, perché il suo appello dovrebbe funzionare? Perché dovrebbe riuscire a lei e al governo Draghi quello in cui hanno fallito tutti i governi dal 1993 in avanti?
«Vede, la festa del 25 Aprile ci riporta alla mente anni di lacerazione fortissima, ma soprattutto un grande momento di riscatto. Evoca lo stato d’animo di un popolo che seppe mettere da parte le conflittualità, pur conservando le differenze. Seppe ritrovare il coraggio per unirsi e per ricostruire una nazione libera e democratica. La giustizia, molto più che altri ambiti, è stata una trincea dove si è consumato uno scontro di idee e di sensibilità tra i vari soggetti istituzionali, politici e sociali. Ora deve diventare il terreno dove cercare una convergenza, che non è solo trovarsi a metà strada, ma immaginare una mappa di principi in cui tutti possano riconoscersi. Abbiamo il dovere di farlo, per il bene delle future generazioni».
Mi perdoni, lo hanno detto tutti i suoi predecessori, appena entrati in questo ufficio. Cosa è cambiato, rispetto a prima?
«È cambiato tutto. Non è retorica, è realismo: abbiamo un compito storico, un’occasione irripetibile per l’Italia. È il Recovery Plan, che il presidente Draghi presenterà alle Camere e trasmetterà alla Commissione Ue la prossima settimana. Vorrei che una cosa fosse ben chiara, ai partiti e ai cittadini: insieme a quella della Pubblica Amministrazione, la riforma della giustizia è il pilastro su cui poggia l’intero Piano nazionale di ripresa e resilienza. Se fallisce questa riforma, molto semplicemente, noi non avremo i fondi europei. Non avremo le risorse necessarie a rimettere in piedi il Paese dopo la pandemia. Questa è la posta in gioco. Per questo faccio appello al senso di responsabilità delle forze politiche, perché rinuncino al conflitto permanente e ammainino le “bandierine identitarie”, come ha detto il premier…».
Ammettiamolo: finora non è accaduto.
«In questi due mesi e mezzo abbiamo indirizzato i primi passi nella direzione di ricreare un clima di fiducia reciproca. Ma ora comincia la fase cruciale, non neghiamolo. Le polemiche di giornata non ci devono distogliere dall’obiettivo più alto. Discutiamo pure sui singoli tecnicismi, ma non perdiamo di vista il compito ultimo e lo spirito con cui è nato questo governo».
E secondo lei oggi aleggia il “Veni creator Spiritus”, con Matteo Salvini al posto di Benedetto Croce?
«Lo spirito costituente non può esser dato per scontato, va custodito e riconquistato ogni giorno. All’interno del governo, io avverto una “gravitas”, un senso di consapevolezza della nostra missione. Ma come abbiamo visto in quest’ultima settimana, le increspature o i motivi di possibile dissenso possono essere ovunque. Basta che non si trasformino in insanabile dissidio. Per questo occorre una forte assunzione di responsabilità da parte di tutti. Lavoriamo per il bene comune».
Non le sembra un paradosso che siate proprio voi “tecnici” a parlare di bene comune?
«Tecnici e politici condividiamo la stessa responsabilità, è un equilibrio da custodire con cura, dipende dalla buona disponibilità di tutti e dall’abilità del direttore d’orchestra, che finora ha diretto bene».
Ma la fatica del compromesso cresce: pensi al braccio di ferro sull’ecobonus o sul cashback…
«Oggi ci serve un grande patto, ed io da costituzionalista non posso non partire dal patto fondativo che fece nascere la nostra Repubblica. Anche allora c’erano tre forze politiche dominanti che andavano in direzioni diverse, le lotte interne imperversavano. Eppure la Costituzione si fece, anche se nel ‘47 una delle forze che stavano contribuendo a scriverla fu estromessa dal governo. Si andò avanti, tutti insieme, com’è capitato in altri momenti bui della Repubblica: la lotta al terrorismo, la stagione delle stragi di mafia e il contesto che portò al governo Ciampi del ‘93».
Da cosa nasce la frattura sulla giustizia? Tangentopoli, Mani Pulite, Berlusconi?
«In una prospettiva squisitamente storica, non si può non prendere atto che in quei primi anni ‘90 una magistratura forte ha scoperchiato il vaso di Pandora di Tangentopoli, con i processi che coinvolsero i partiti. Tutto quello che è successo dopo è stata una concatenazione di azioni e reazioni. Questo ci dice la storia».
Oggi come si ricompone la frattura?
«Secondo me la frattura si ricompone sempre a partire da un ascolto profondo delle ragioni contrapposte, nel tentativo di farle convergere. Mi trovo ad essere Ministra della Giustizia in un governo ampio e composito, senza appartenere ad alcuna delle parti in causa, per cui non ho il problema di dover difendere una posizione rispetto all’altra. A me interessa solo trovare un punto di sintesi, per migliorare il servizio Giustizia e non far perdere al nostro Paese l’occasione del Recovery».
Perché in Italia continuiamo a giocare il derby tra giustizialisti e garantisti?
«Il derby c’è perché ci sono due “ismi”. Intendiamoci, giustizia e garanzie sono entrambe esigenze legittime, riconducibili nel perimetro costituzionale. Ma quando si assolutizzano, diventano motivi di scontro e nient’altro. Quando manca il punto di equilibrio, allora si può fare il derby su tutto. L’ho detto all’incontro con i capigruppo della maggioranza, citando il Qoelet: non trasformiamo ogni istanza, per quanto legittima, in una pretesa irriducibile e unilaterale. La Giustizia vista attraverso i testi fondamentali della nostra civilità, dalla Bibbia alla cultura greco romana, non è “fiat iustitia et pereat mundus”. Dobbiamo abituarci a pensare non per aut-aut, ma per et-et. Non “o giustizia o garanzia”, ma “e giustizia e garanzie”…».
È questo, dunque, il famoso “metodo Cartabia”?
«Questa leggenda del metodo Cartabia mi fa un po’ sorridere. Qui non c’è nessuna royalty e nessun brevetto. Tutto nasce dall’esperienza dei miei nove anni alla Corte Costituzionale: in definitiva, cos’altro è una Costituzione, se non la ricerca di un equilibrio continuo tra esigenze contrapposte? Bilanciamento, ragionevolezza e proporzionalità: sono tre parole fondamentalmente interscambiabili nella giurisprudenza costituzionale. E si traducono in una famosa frase scritta dalla Corte nel 2013: ciascun principio, se affermato in modo assoluto, diventa tiranno.
L’altro aiuto fondamentale viene dai dati di realtà: perseguire una idea, pur buona, senza fare i conti con un sano realismo, innesca battaglie di principio destinate a degenerare in dissidi non componibili. Se proprio vogliamo definire il metodo che cerco di seguire potremmo evocare Sant’Agostino: “nelle mani i codici, negli occhi i fatti”. Principi costituzionali e dati di fatto sono le coordinate da non perdere mai di vista».
Avviciniamoci ai fatti, allora. In cosa si traduce la sua riforma della giustizia?
«I problemi aperti sono tanti. Come abbiamo scritto nel Recovery, la nostra idea è che una giustizia rapida e di qualità è fondamentale anche per lo sviluppo economico: aiuta la crescita, stimola la concorrenza e la competitività, facilita il credito bancario, attira gli investimenti. Le do solo qualche stima: una riduzione della durata dei processi civili del 50% può accrescere la dimensione media delle imprese italiane di circa il 10%. Una riduzione da 9 a 5 anni dei tempi di definizione delle procedure fallimentari può generare un incremento di produttività dell’economia dell’1,6%».
Quindi cosa farete?
«Interverremo sulle principali criticità del sistema, la cui rimozione viene richiesta al Paese per garantire i fondi del Next Generation Eu. Saranno riforme dei processi, digitalizzazione, assunzione di personale, ristrutturazioni edilizie. Un intervento importante è l’ufficio del processo: ogni giudice viene aiutato da uno staff qualificato. Aumenteremo gli organici, completando il reclutamento del personale amministrativo con quasi undicimila unità nel prossimo triennio. E ampliando il numero dei magistrati in rapporto alla popolazione, che in Italia resta al di sotto delle medie europee. Riformeremo il processo civile, penale e quello tributario, e potenzieremo le forme di risoluzione alternativa delle dispute: l’arbitrato, la negoziazione assistita, la mediazione. L’obiettivo finale è sempre lo stesso: accorciare i tempi dei processi. Purtroppo siamo molto lontani dalle medie europee: dobbiamo accelerare. Quando è possibile, andando a caccia di ciò che funziona, perché mi creda, anche nella nostra giustizia qualche perla c’è».
Per esempio?
«Gli esempi potrebbero essere tanti, ma cito il caso del tribunale di Viterbo, perché ho chiamato la presidente a fare il capo dell’ispettorato. Quel tribunale ha funzionato benissimo in termini di abbattimento dell’arretrato, riduzione dei tempi, risoluzione delle controversie. E sa qual è il segreto? Mettere insieme i vari soggetti e farli dialogare: i giudici, l’avvocatura, ma anche l’università, le istituzioni locali, il carcere. Quando il Tribunale diventa centro di aggregazione, immerso totalmente nel suo territorio, funziona».
Ministra Cartabia, non giriamoci troppo intorno. Il vero ostacolo che lei ha di fronte è la riforma del processo penale e la prescrizione. Come scioglierà questo nodo?
«Come ho detto da subito, sono perfettamente consapevole che i passaggi più delicati devono ancora venire. Anche sul penale dobbiamo accorciare drasticamente i tempi. Stiamo lavorando per incidere sui punti dove il processo si inceppa e rallenta. Una durata eccessiva fa un doppio danno: viola il diritto della persona a non rimanere sotto processo per lungo tempo, pregiudica l’interesse all’accertamento e al perseguimento del reato. Quanto alla prescrizione, bisogna intervenire, abbiamo preso un impegno e lo manterremo. So bene che sarà il nodo più difficile da sciogliere. Per questo ho chiesto alla commissione tecnica di propormi un ventaglio di ipotesi».
Lei avrà una sua idea…
«Ancora no, ma ovviamente ci sto riflettendo. Quando avremo le varie ipotesi sul tavolo, e prima ancora di presentare un emendamento alla legge delega, avvierò un confronto nella maggioranza per capire su quali aspetti si può raggiungere una convergenza maggiore, tenendo conto che lì si riversano le sensibilità più diverse, non solo dei partiti, ma anche dell’avvocatura rispetto alla magistratura, dei procuratori rispetto all’organo giudicante. La possibilità di un’intesa c’è, io spero in tempi non troppo lunghi».
Delle intercettazioni cosa mi dice?
«Per ora non le dico nulla. E mi creda, non per reticenza, ma è un dossier che non ho neanche iniziato ad istruire».
Nelle inchieste sulle Ong sono stati intercettati giornalisti mai neanche indagati. Non le pare un fatto grave?
«Posso solo dire che ho avviato un’ispezione in quella Procura».
Le toccherà mettere mano anche al Csm: più che un nodo da sciogliere, un nido di vipere. Chi tocca le correnti muore?
«Io penso che le correnti non si possano e non si debbano eliminare: sono espressione di un pluralismo culturale che c’è nella nostra magistratura. Quello che va eliminato sono le degenerazioni, le logiche spartitorie. Insomma, il “correntismo”, che è un problema innanzitutto culturale. Come in molti ambiti, anche per la riforma del Csm gli interventi giuridici possono accompagnare una trasformazione culturale, ma gli uni non bastano senza l’altra. Detto questo, qualcosa si può fare. Ho chiesto alla Commissione guidata da Massimo Luciani di studiare i possibili ambiti di intervento, dal sistema elettorale del Csm ai criteri di attribuzione degli incarichi direttivi».
Il caso Palamara deflagra proprio su questo. E il danno reputazionale che ne subisce un’istituzione decisiva come la magistratura è incalcolabile…
«È così. E qui, davvero, serve maggior rigore sui requisiti, sulla professionalità, sul merito soprattutto nell’attribuzione degli incarichi direttivi. C’è bisogno di intervenire in modo molto serio, perché anche la logica della lottizzazione mortifica la qualità, amplifica le inefficienze della giustizia. Tutto si tiene, alla fine».
Lei vede una magistratura troppo politicizzata in Italia o no?
«Se guardiamo al complesso della magistratura, mi pare che la stragrande maggioranza degli ottomila magistrati italiani abbia dato prova di grande professionalità. Certo, i magistrati sono cittadini come gli altri, hanno una storia, una formazione culturale, una sensibilità politica: questo non mi scandalizza, nella misura in cui non incide sulla loro imparzialità».
Un fenomeno insopportabile di questi anni è stato quello delle sliding doors: toghe che entrano in politica, e poi tornano in magistratura. Un colpo micidiale alla credibilità delle toghe.
«È vero, questo è un fattore critico rilevante, ma mi pare che la stessa magistratura sia consapevole del problema. Ora deve solo trovare una soluzione. Il tema comunque sarà affrontato dalla Commissione sulla riforma dell’ordinamento giudiziario».
Ora non le chiederò un giudizio sul caso Grillo, perché come ha spiegato alla sottosegretaria Macina il governo non interviene sui procedimenti in corso. Ma le chiedo, da ministra, come si cura la piaga della violenza sulle donne?
«È un dramma che mi angoscia. E mi angoscia ancora di più constatare che i femminicidi stanno aumentando mentre tutti gli altri fatti di sangue sono in diminuzione. Sul piano della repressione, le norme sono state già inasprite negli ultimi anni, non ultimo il codice rosso. Ma io penso che occorra agire più in profondità. Non a caso la Convenzione di Istanbul, che indica punizioni severe, chiede anche interventi di prevenzione e di sensibilizzazione culturale. Le regole da sole non bastano mai a cambiare i costumi, anche se sono severe. E’ necessario un intervento culturale forte di sensibilizzazione specie dei giovani, su questo come su altri temi, come la cultura della legalità e dell’antimafia. Ne ho parlato con Maria Falcone, che ha proiettato tutte le sue energie sui giovani. Come del resto ha fatto anche Rita Borsellino: le fondamenta affondano sempre in un terreno culturale. Il modo migliore per diffondere e difendere la legalità e il rispetto dell’altro è testimoniare, spendere la propria vita raccontandosi ai giovani».
Tornando alla “lezione” del 25 aprile, è la stessa cosa che fa un’altra grande italiana come Liliana Segre. Peccato che da sopravvissuta alla Shoah debba girare con la scorta.
«L’Italia di oggi, purtroppo, è anche questo. Dobbiamo esprimere un’immensa gratitudine a Liliana Segre, che porta il peso della testimonianza. Ma dobbiamo imparare ancora a fondo la nostra Storia. Il 25 aprile è una data molto precisa per noi. Altri Paesi faranno i conti con i loro totalitarismi, noi dobbiamo fare i conti con una tragica dittatura che abbiamo pagato sulla nostra pelle. Lo ricorderò questa mattina a Genova, dove la Resistenza ha avuto caratteri di particolare unità. La liberazione anticipò l’arrivo degli alleati e fu sancita da un accordo, firmato da nemici irriducibili, due uomini appartenenti a mondi lontanissimi: un operaio comunista e un generale dell’antica tradizione militare prussiana, il cui incontro fu reso possibile dalla mediazione di un terzo, come sempre avviene di fronte a dissidi insanabili».
Come si dice: altri tempi, altre tempre…
«Lo espresse bene Paolo Emilio Taviani: i partigiani hanno tutti il fazzoletto rosso, ma non è il rosso del comunismo e del socialismo, è il rosso dell’anti-nero. A unire le donne e gli uomini che combatterono per la nostra libertà fu la Resistenza contro il fascismo. E su questo, finita la guerra, firmarono con il loro sangue il patto costituzionale che ci lega. Non dobbiamo mai dimenticarlo».