25 aprile 2021
In morte di Milva
Michele Serra, la Repubblica
Ieri mattina la voce di Milva ha riempito la mia casa ( La rossa di Jannacci, Dicono di me di Vangelis, Alexander Platz di Battiato, e Mackie Messer a gogò). Fortunati i cantanti, che quando se ne vanno fanno risuonare, tutte insieme, le nostre vite, al loro funerale il corteo è interminabile, sono i milioni di donne e di uomini che cantano le loro canzoni, non si capisce bene se le loro lacrime sono di tristezza o di gioia, triste è morire, infinitamente bello avere vissuto e cantato.
Quando un cantante muore la sua voce esce dalla nostra memoria come se l’avessimo ascoltata ieri: scopro che La rossa è di quarantuno anni fa e mi sembra incredibile – incredibile, del resto, è non avere più vent’anni. Se avete tempo cercate la copertina di quel disco, la Rossa era bellissima, secca e impetuosa come un canneto della sua terra piatta, e i suoi capelli erano musica. Una nuvola di musica. Da bambino, forse per la potenza della voce, credevo fosse un donnone, era invece mingherlina, anche fragile, ma con una energia artistica spaventosa – i suoi bassi affioravano dal profondo, erano underground come il fiato dei vulcani. Milva è stata una donna di sinistra per doppia via: perché era del popolo (spesso, in quegli anni, di sinistra) e perché incontrò Strehler e la Milano del Piccolo Teatro, che oggi sarebbe detto, cretinamente, radical chic, ma fu semplicemente un glorioso avamposto della migliore cultura europea, che sì, per coincidenza astrale, in quegli anni era piuttosto di sinistra, abbiate pazienza. Cantò con la stessa voce Kurt Weill e la fatica e il coraggio delle mondariso. Oggi, 25 aprile, Milva canta Bella ciao, e noi con lei.
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Natalia Aspesi, la Repubblica
Quell’anno, era il 1961, al Festival di Sanremo (per radio e in televisione in bianco e nero in differita) tra i 42 cantanti c’erano 25 esordienti, molti di loro destinati alla celebrità: come Adriano Celentano, Gino Paoli, Giorgio Gaber, e questa Milva che arrivava già col titolo di "pantera di Goro" conquistato nelle balere della bassa ferrarese. Allora i cantanti erano se stessi, non inventati da abili venditori, e lei a 22 anni era una ragazzona robusta, rustica, con l’aria allarmata dei timidi: il trucco sbagliato, i capelli scuri raccolti per aria (come poi l’anno dopo in La bellezza di Ippolita , film interessante di Giancarlo Zagni) e un guardaroba, comprese certe scarpe grossolane, quasi tutto d’oro. Voce da subito meravigliosa, si classificò al terzo posto, vincitore assieme a Betty Curtis quel Luciano Tajoli che, grassoccio e claudicante, con la sua melensaggine tediosa faceva impazzire le massaie. (Avvertenza al lettore, mi adeguo alla libera scorrettezza d’epoca, come un Roth non solo infimo ma anche italiano).
Aveva già vicino, nel salone delle feste del casinò dove si svolgeva allora il Festival, l’uomo che sarebbe diventato pochi mesi dopo suo marito, un signore con baffi e i capelli bianchi di fascinosa eleganza che tutte lumavamo senza speranza. Era Maurizio Corgnati, regista cinetelevisivo, uno di quegli intellettuali della provincia italiana forse scomparsi (uccisi da Twitter?) di cultura immensa, sette lingue, appassionato d’arte e di cucina (celebre il suo risotto alle pesche con menta) capace di recitare a memoria anche in greco l’Odissea e l’IIiade, una folla di altri intellettuali piemontesi goderecci come Lucentini, ospiti spesso nella la sua antica ed enorme magione a Maglione nel canadese. È in quell’ambiente, tra quelle belle persone, che nascerà la vera Milva. Quando si incontrano alla Rai, lei ha 21 anni, lui 44, ed è subito un grandissimo reciproco amore: lui diventa il suo Pigmalione, e può farlo perché quella ragazza di campagna dalla bella voce è intelligentissima, ambiziosa, con grandi capacità. Lei gli si affida, lui la trasforma in una donna molto bella, sottile, dalla grande chioma rossa che ne fa un’altra Rita Hayworth, lei studia, il suo italiano si fa nobile, legge, diventa colta, impara perfettamente le lingue, conosce il mondo, il mondo la vuole: poi con Pigmalione finisce come finiscono gli amori che sono stati troppo importanti, ma lei ormai si è impadronita del suo talento e sa usarlo: da Goro alla Scala, dalle canzoni di Nilla Pizzi a Kurt Weill, a Strehler, a Brecht, 80 milioni di dischi, 15 volte a Sanremo, 40 spettacoli colti solo in Italia, altrettanti in Germania e Francia.
Me la ricordo nella sua bella casa piena di libri in via Serbelloni, una delle strade più nobili di Milano, me la ricordo assieme a un altro suo grande amore, il filosofo Massimo Gallerani, bello, giovane, di grande famiglia, che ha continuato ad abitare in Corso Venezia vicino a lei ma non con lei, mi ricordo il suo sperdimento quando quella lunga storia è finita. Mi ricordo quell’amata bambina che è diventata una importante curatrice d’arte, e ha fatto belle mostre, che si chiama Martina Corgnati (e ora ha 57 anni) e dalla madre aveva preso la sottile grazia fisica e dal padre la passione culturale. Una professione volutamente lontana dal palcoscenico, una vita sua ma anche vicino alla mamma, la Milva della luce e del buio.
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Mario Luzzatto Fegiz, Corriere della Sera
«Mia madre Milva non è morta per Covid, ma di una malattia neurologica e degenerativa che non era però Alzheimer. Una patologia forse legata alla vita intensa e ricca di impegni e sfide artistiche continue, a una specie di stanchezza antica e profonda». Martina Corgnati parla così della madre: le è stata sempre accanto per lunghi anni. La cantante riusciva in qualche modo a comunicare con lei e con la fida assistente. «Nonostante i numerosi problemi di varia natura riusciva comunque a capire e a gioire. L’intervista del Corriere per i suoi 80 anni l’aveva riempita di gioia».
Che cosa le ha insegnato sua madre?
«A essere molto responsabile. Poi l’etica sul lavoro, rigore, attenzione. E a cercare sempre l’eccellenza».
Come la ricorda?
«Esigente prima di tutto con se stessa. Temeva la mediocrità e la superficialità».
Aveva paura?
«In continuazione. Temeva sempre di non essere all’altezza del ruolo. La vera storia, su libretto di Calvino con musiche di Berio, che interpretò alla Scala, fu per lei un piacere ma anche molta fatica».
È vero che evitava di dire la sua età?
«Per lei era un problema fino a un certo punto . La diceva in televisione o in altre occasioni pubbliche».
Cosa ricorda della sua collaborazione con Jannacci e Battiato?
«Stiamo parlando degli anni Ottanta in cui ancora vivevamo assieme. Ricordo con Battiato una cena al ristorante: una lunga dissertazione di Franco sul filosofo Gurdjieff, di cui era fervido ammiratore. Era l’inizio di una riuscita collaborazione discografica di cui Alexanderplatz fu uno dei risultati. Con Jannacci ci fu sempre amicizia».
Questo esplorare mondi musicali fra loro lontani, da Sanremo a Berio, la stimolava?
«Si, le piaceva mettersi alla prova. Le collaborazioni sono spesso partite, e coltivate, da lei. Nel musical Angeli in bandiera con Gino Bramieri vestiva i panni di una prostituta (Bramieri era lo sfruttatore); molto prima nella Cantata di un mostro lusitano (sul colonialismo in Angola) lei si metteva alla prova».
La differenza con Mina?
«Erano entrambe dotate di grande vocalità. Mina è insuperabile qualunque cosa canti; la mia mamma era più... camaleontica. Le veniva spontaneo entrare nel personaggio. Eccelleva in tutti i ruoli grazie alla sua curiosità. Una crescita favorita anche dalla collaborazione con mio padre, Maurizio Corgnati».
Tra tanta varietà quali erano i gusti musicali di Milva?
«Tutti. Per lei musica era darsi fino in fondo. Aveva molti amici come Enrico Ruggeri. Con il quale duettò a Sanremo 2007».
Il suo ricordo di figlia?
«Quando lavoro penso a lei, alla sua coerenza e alla sua passione. Amare la bellezza, amarla fino in fondo senza riserve».