la Repubblica, 25 aprile 2021
La penuria di chip manda in crisi i colossi dell’auto
La General Motors ha dovuto chiudere una delle sue fabbriche nel Kansas. La Mercedes ferma la produzione di alcuni modelli. Porsche e Peugeot, Renault e Volkswagen- Seat: tutte le case automobilistiche annunciano pause e rallentamenti nella produzione. La ragione non è una crisi della domanda: al contrario, il mercato è in ripresa. L’emergenza è causata dalla penuria di un componente essenziale, i semiconduttori o microchip. La scarsità di queste “memorie elettroniche” fatte di circuiti integrati è in parte un residuo della pandemia, ma è anche un effetto collaterale dello scontro fra Cina e Stati Uniti.Nessun settore è al riparo perché l’elettronica avanzata è ormai ubiqua, penetra oggetti che ne erano sprovvisti. Un tempo indispensabili soprattutto per computer e telefonini, oggi i semiconduttori sono entrati a far parte di un ventaglio di prodotti molto più ampio. Un’auto senza la sua centralina elettronica non è concepibile. Ha bisogno di microchip il carburatore a iniezione, il sistema dei freni, più tutti i gadget d’intrattenimento che ormai sono dotazioni di bordo. In media un’auto può avere tremila microchip. Ma durante la pandemia e i lockdown è esploso l’acquisto di altri prodotti che fanno un uso ancora più intensivo dei semiconduttori: computer, smartphone, consolle per videogiochi, mega-schermi tv, webcam.
Questi settori fanno la parte del leone perché in un anno “normale” (2019) si sono venduti 1,4 miliardi di cellulari a fronte di 93 milioni di auto. Per il numero uno mondiale della produzione di microchip, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, l’industria automobilistica rappresenta solo il 3% delle vendite. I lockdown hanno provocato un boom di domanda e un ingorgo di consegne a favore dell’industria informatica ed elettronica, a scapito delle case automobilistiche. Altre cause della penuria sono contingenti: una siccità a Taiwan sta creando problemi a un’industria che consuma molta acqua.
Sullo sfondo c’è il problema più generale, e destinato a durare: l’ostilità tra Stati Uniti e Cina ha spezzato una serie di catene industriali e logistiche, creando varie forme di embargo proprio in questo settore per la sua natura strategica, anche a fini militari. Il fatto che i massimi produttori mondiali non siano più in Occidente, bensì a Taiwan e in Corea del Sud, ha acceso da tempo un allarme a Washington. L’America era stata la patria dei semiconduttori ma non lo è più, e si scopre dipendente da regioni molto lontane, per di più vulnerabili in caso di conflitto perché troppo vicine alla Cina. Donald Trump aveva cominciato a introdurre un embargo sull’export di semiconduttori made in Usa verso la Cina. Joe Biden ha riunito una task force degli industriali del settore alla Casa Bianca, promettendo 50 miliardi di dollari per rafforzare la capacità produttiva sul territorio degli Stati Uniti.
I semiconduttori danno il nome alla Silicon Valley, letteralmente, perché il silicio è un materiale usato per fabbricarli. Però da tempo la Silicon Valley ha perduto il primato mondiale in questa produzione. Un tempo Intel era la regina mondiale, da anni ha ceduto lo scettro a concorrenti asiatici: il gigante di Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, e la Samsung sudcoreana. Taiwan da sola produce il 65% dei semiconduttori mondiali. Il Pentagono teme l’eccessiva dipendenza dell’industria militare americana da semiconduttori fabbricati sulla sponda opposta del Pacifico. La pandemia ha rivelato la fragilità di catene logistiche globali troppo dilatate. Che accadrebbe – si sono chiesti i vertici militari americani – se la Cina dovesse bloccare le rotte navali che da Taiwan e dalla Corea del Sud riforniscono l’America di microchip?
Nel frattempo la Cina stessa si è allarmata, perché Donald Trump stava cominciando a imporre restrizioni sull’export di microchip made in Usa verso la grande rivale. Quasi in contemporanea sono partiti due piani paralleli, uno americano e l’altro cinese, per consentire una semi-autarchia o per lo meno un discreto livello di autosufficienza producendo semiconduttori in casa. Gli esperti ammoniscono però che ricostruire una supremazia americana nei semiconduttori richiederà molto tempo. E non è detto che sia solo una questione di capitali investiti, perché Intel ha perso quota rispetto ai taiwanesi e ai sudcoreani pur investendo di più nella ricerca. Comunque Intel ha già assecondato le direttive di Biden, con l’apertura di due nuove fabbriche in Arizona, un investimento da 20 miliardi.