Robinson, 24 aprile 2021
Intervista a Paolo Cangelosi
Che a vent’anni fosse pronto per camminare lungo strade ignote, non lo avrebbe certo immaginato.A vent’anni si pensa ad altro che non ad andare alla ricerca di un maestro, perché lo si è perso, o perché certi destini personali si vestono di un insolito altrove. Ma è così che è andata questa storia che vorrei raccontare attraverso le parole del suo protagonista: Paolo Cangelosi, maestro di Kung Fu, oggi sessantenne, la cui vicenda è diventata un libro ( L’uomo e il Maestro, edito da e/o) che – tranne la copertina francamente trash – appassiona.Cangelosi lo ha scritto con Nathalie Tocci, che ha impresso la sensibilità letteraria a una materia fatta soprattutto di gesti e spirito. Sento Cangelosi per telefono, vive a Genova dove è nato. Gli dico che alcune cose che racconta mi sembrano francamente incredibili, come ad esempio spostare una persona a distanza, senza neppure sfiorarla. Lui dice che non vuole essere un fenomeno da baraccone, ma che ha la capacità di canalizzare l’energia e che dopo si sente come svuotato. Mi invia dei file dove posso verificare tutto questo. È la solita questione: chi ci assicura che il gruppetto di persone messe in fila indiana non fosse d’accordo? Resto con il dubbio. Ma è giusto così. La storia vera è un’altra.Lei è un “Sifu”?« Sifu vuol dire maestro. Ho avuto la fortuna di incontrarne casualmente uno all’età di undici anni. E lo sono diventato. Oggi insegno a pochissime persone e affido ai miei collaboratori il rapporto con gli allievi».Come avvenne quel primo incontro?«Fu uno zio che mi condusse da lui. Aveva saputo di un giapponese che lavorava in una falegnameria e che nel tempo libero praticava karate. Andammo a trovarlo e questo orientale accettò di darmi qualche lezione. Scoprii così due cose. Non era giapponese ma cinese, e non era maestro di Karate bensì di Kung Fu».Per un profano occidentale tutte le arti marziali si somigliano.«Nessuna è uguale alle altre e nella stessa disciplina convivono numerosi stili, come appunto nel Kung Fu, la cui storia risale a più di 4500 anni fa. A seconda delle regioni in cui si è praticato ha sviluppato scuole e tecniche differenti».Il suo maestro da dove veniva?«Si chiamava Fu Han Tong e veniva dalla Cina popolare, da cui era scappato».Per ragioni politiche?«So che era stato un esponente della mafia cinese da cui si era voluto allontanare. Ma una volta che si è dentro non ci si può dimettere. Di qui la sua fuga. Era vissuto in varie parti del mondo. Alla fine si rifugiò a Genova. Fu lui a insegnarmi quasi tutto, anche i risvolti più puri che ci sono nel Kung Fu».Cosa intende per puro?«Che non c’è solo l’aspetto tecnico, o estetico; ma anche la storia e la filosofia da cui nasce, la medicina tradizionale cinese che coinvolge, l’introspezione ritualistica cui aspira. Un conto è praticare un’arte marziale in palestra, un altro è avere un maestro cresciuto in quella cultura».La sua famiglia come reagì a questa sua passione?«All’inizio con curiosità, poi accorgendosi che non facevo altro cominciò a preoccuparsi. Soprattutto mio padre cercò di dissuadermi, pensava che la mia fosse un’ossessione».Lo era?«Capivo che il Kung Fu stava diventando la parte più importante della mia vita. Qualunque altra cosa – la scuola, gli affetti, le amicizie – sarebbe passata in secondo piano. Non so dire se fosse un’ossessione. So per certo che non ero io ad aver scelto il Kung Fu, ma il Kung Fu ad aver scelto me».Quanto hanno contato in questo suo rapporto i film che da Hong Kong arrivavano nelle sale cinematografiche occidentali?«I primi film di Bruce Lee giunsero in Italia nel 1973.Già da tre anni praticavo quella disciplina. Ma non c’è dubbio che Bruce Lee è stata una figura carismatica, al cui mito contribuì la morte prematura».Aprì un filone che è culminato in Tarantino. Le piacque “Kill Bill”?«Quello che in Bruce Lee era ancora un messaggio autentico, in Tarantino è diventato un gioco di violenza estetica fine a se stesso. Vede, il cinema ha esaltato soprattutto la parte tecnica del Kung Fu, ma ne ha nascosto o rimosso i valori profondi. Quelli che solo un maestro autentico può trasmettere».A un certo punto il suo maestro senza fornirle alcuna spiegazione se ne torna in Cina e lei dopo qualche anno decide di cercarlo. Perché?«Partii per Hong Kong a vent’anni. Non sapevo nulla, non conoscevo nessuno. Avevo solo un indirizzo che Fu Han Tong aveva trascritto su un pezzo di carta.Per giorni vagai senza meta e quando, dopo varie disavventure, finalmente riuscii a trovarlo, colsi una reazione fredda, quasi di ripulsa. Come se tutti gli anni trascorsi insieme non contassero più nulla».Ha capito il motivo di quel comportamento?«Per un occidentale è difficile da comprendere. Ma credo che per un cinese come lui fosse fondamentale la tradizione, davanti alla quale i rapporti umani passano in secondo piano. La tradizione e il senso del presente. È incredibile come riescano a tenere insieme questi due aspetti, senza contraddirsi: Yin e Yang. Tanto è vero che dopo un po’ Fu Han Tong cominciò a chiedermi perché avevo deciso di cercarlo. Gli risposi che volevo continuare quel percorso che, grazie a lui, avevo cominciato».Le propose anche di combattere?«Sì, perché si accorse che avevo talento. Accettai con entusiasmo. Solo in seguito mi resi conto che intorno ai combattimenti c’era un giro di scommesse».La stupì?«Non avevo capito quel lato opaco. Ma a quanto pare lì era normale che i maestri guadagnassero dalla vittoria dei loro allievi. Feci vari incontri e li vinsi. Poi tornai a Genova. Ma il richiamo dell’oriente era forte. Tornai nuovamente a Hong Kong all’inizio del 1982.Fu durante quel nuovo soggiorno che Fu Han Tong mi propose di seguirlo in Cina, cosa che mi riempì di gioia e di curiosità».Che paese conobbe?«Allora non avevo nessuna consapevolezza di che cosa fosse la Cina. Non sapevo che Mao era morto da alcuni anni, e che il potere era passato a Deng Xiaoping e che era in atto un grande sforzo per ridimensionare il potere scaturito dalla Rivoluzione Culturale. Ero giovane e la sola cosa che vedevo era l’enorme differenza con Hong Kong».Che cosa percepì?«L’isolamento delle persone, e un’atmosfera fatta di paura e sospetti. Mi colpì che giovani come me non potevano tenersi per mano. Tutti indossavano gli stessi vestiti. Ricordo le guardie con i cappottoni verdi e il berretto con la stella rossa. Erano volti senza espressione, eppure capaci di intimidire».Lei dove viveva?«Presso una famiglia locale, anche se non avrei potuto farlo. Circolavo con un permesso che il mio maestro mi aveva fatto ottenere. Ma spostarsi non era affatto semplice. La popolazione era diffidente, poco socievole. Oltretutto, le era vietato parlare con degli stranieri. Nei piccoli paesi, nei villaggi, la vita era durissima. Una volta camminando per una di quelle stradine incrociai due persone anziane che mi sputarono. Pensai a cosa avevano dovuto passare per un gesto così offensivo. Noi occidentali eravamo considerati i “diavoli bianchi"!».Ma lei era lì immagino soprattutto per il Kung Fu.«Constatai che la pratica di quella disciplina era vietata, almeno nella sua forma tradizionale.L’avevano trasformata in una disciplina ginnica e acrobatica, ribattezzandola Wu Shu. Tolti i riti, gli altari, le tradizioni restava solo l’aspetto coreografico e spettacolare. Ma il Kung Fu non era sparito, veniva praticato clandestinamente. Tanto è vero che il mio maestro organizzò alcuni di questi incontri vietati, l’ultimo dei quali fu drammatico».Cosa le accadde?«Dovevo sostenere tre combattimenti. Vinsi i primi due. Il terzo, con un avversario fortissimo, lo persi.Restai come paralizzato a terra. Sentii delle voci allarmate, venni spostato da un lato e poi tutti andarono via. Rimasi solo e disperato, nell’oscurità dello stanzone. Abbandonato come un animale ferito. La mattina dopo avvertii dei rumori e intravidi un paio di persone che si chinavano su di me. Forse volevano capire se ero morto. Uno dei due era il mio maestro. Mi caricarono su un camioncino e mi portarono da un medico».Non in ospedale?«Quegli incontri erano vietati e certamente all’ospedale non avrebbero avuto modo di giustificare perché uno straniero si trovasse in quelle condizioni. Il medico che mi visitò, amico del mio maestro, rilevò una forte contusione al collo e previde che nel giro di una settimana mi sarei rimesso. Cosa che accadde. Quella vicenda mi lasciò un senso di sgomento, sia per il modo in cui ero stato abbandonato, sia per la violenza insita nei combattimenti senza regole che in quei contesti veniva esercitata».Lo chiamerebbe il lato oscuro del Kung Fu?Sì, ma con la precisazione che il “lato oscuro” non risiede nella disciplina ma negli uomini che la praticano. Devo aggiungere che per me è stato importante approfondire l’aspetto spirituale. Ho ancora viva l’immagine di un’esperienza che feci con un eremita che aveva fatto voto del silenzio e che conobbi grazie a Fu Han Tong. Viveva in un capanno nel mezzo di una giungla, nel sud della Cina tra Guanxi e Guangdong. Si chiamava Tien Sin, che vuol dire “Stella del cielo”. Fu la sua “stella” a orientarmi nella meditazione e a farmi esplorare parti di me sconosciute».Oltre Fu Han Tong ha avuto altri maestri?«Sì e tutti fondamentali per entrare nella variegatezza degli stili. Maestri cui sono grato anche per tutto quello che non mi hanno insegnato».È un’affermazione curiosa.«Se si vuole seguire la “Via” lo si deve fare in piena indipendenza, liberandosi da tutto quello che si è appreso. Il che non significa dimenticare, bensì entrare in un ordine diverso del ricordo».Che ne è stato del suo primo maestro?«Ci lasciammo in Cina. Come al solito Fu Han Tong organizzò per me degli incontri molto importanti.L’ultimo dei quali fu con un campione col quale feci solo un combattimento figurato. Mostravamo davanti a un pubblico di specialisti il grado delle nostre tecniche. In realtà quel confronto dimostrativo avrebbe dovuto preparare l’incontro vero. Ripensai ai rischi, alla violenza che io e il mio avversario avremmo dovuto impiegare e sebbene fossi ancora una volta tentato di mettermi alla prova rinunciai. Con quella decisione persi il mio maestro».Perché?«Era il no a una parte di lui. Credo che Fu Han Tong avesse compreso benissimo la mia decisione. E il suo comportamento non fu diverso dalle altre volte. Non cercò di convincermi, mi disse solo: si può sempre scegliere e tu lo hai fatto, e mentre allungava il braccio non pensai che quella sarebbe stata la nostra ultima stretta di mano».Ha mai provato a cercarlo dopo quel momento?«Dopo alcuni anni tentai di avere sue notizie. Ma lo feci senza esasperazione, come per provare a dare corpo a un ricordo. Ma non ne ho più saputo nulla.Con tutti i limiti, lui resta la persona più importante per me. Ho avuto momenti difficili, incomprensioni, amarezze e delusioni. Non sai mai cosa la vita ti riserva. Se c’è sempre la dualità tra il maestro e l’allievo, ancor di più può esserci nel rapporto con la vita. Ma arriva un momento in cui bisogna mettere alla prova cosa si è diventati. È lì, in quel preciso istante, tra le difficoltà che rischiano di travolgerti, che scopri il significato della “Via”, come celebrazione del momento».