la Repubblica, 24 aprile 2021
Letta e il paradosso delle primarie
Le primarie sono un momento di aggregazione. La sinistra le ha sempre raccontate così. Ma pur essendo l’unico obiettivo non problematico che le primarie raggiungono, le reazioni che si stanno avendo a Bologna e che si ipotizzano in seguito in altre città, stanno mettendo in crisi anche questa certezza.
In realtà, le primarie hanno dimostrato di avere molti difetti e pochissimi pregi. È stato dimostrato più volte che sono divisive. Le uniche primarie non divisive nel centrosinistra sono state le prime, plebiscitarie (le primissime di Prodi per L’Unione; quelle di Veltroni): c’era un candidato, un programma e dei concorrenti non pericolosi. Poi, per un esempio, sono arrivate le primarie Bersani contro Renzi, e poco dopo Renzi contro quelli del partito. Risultato finale: inimicizie per l’eternità. Quando le ha vinte Renzi, ha portato un suo gruppo, e il resto del partito lo ha sentito estraneo anche quando ha raggiunto percentuali massime – figuriamoci dopo. Risultato definitivo: prima è andato via Bersani dal partito; poi è andato via anche Renzi. E ogni volta, vecchi schieramenti di vecchie primarie, chiamati correnti, tornano a farsi sentire. Ed è uno dei motivi per cui Zingaretti si è dimesso.
Ora Draghi ha una coalizione larghissima per portare il Paese fuori dalla pandemia. È una specie di lungo intervallo politico, e quindi una grande occasione per il Pd: in questi anni è stato il partito che ha risposto alle richieste di soccorso con responsabilità; ha sempre dato una risposta affidabile, ma non ha più costruito un’iniziativa politica a cui rispondessero altri.
In questa occasione ha cambiato segretario; Enrico Letta sembra pieno di buona volontà e idee chiare. Ha ricostruito il gruppo dirigente, ha voluto due donne capogruppo in Parlamento. Ma poi, per quanto riguarda le decisioni più vicine, cioè chi candidare a sindaco di città importanti, con chi coalizzarsi, con chi trovare una sintesi seria e vincente, dice: facciamo le primarie. Cioè: non decide il partito, decidete direttamente voi.
Ed ecco un altro problema delle primarie: se decidono direttamente gli elettori, poi ricadrà su di loro sia la colpa di aver scelto il candidato sbagliato (se perderà) sia la colpa delle scelte politiche che farà. Se Letta consulta i circoli, chiede agli iscritti al Pd quali sono secondo loro i problemi e i temi, poi perché non decide di sintetizzare questi temi? Perché agli stessi a cui ha chiesto di mettere in luce le esigenze più importanti, chiede anche di scegliersi il candidato sindaco nella propria città?
Facciamo invece l’ipotesi senza primarie: Letta, eletto plebiscitariamente dai dirigenti del partito, insieme al direttivo, dopo aver ascoltato i circoli e i problemi delle varie città, decide di fare una coalizione con questo o quel partito (ad esempio i 5stelle, come ripete spesso), trova insieme agli alleati un nome condiviso, o autonomo se decide di presentarsi in autonomia; il nome è la sintesi di un compromesso politico (compromesso, parola sacrosanta in politica, che ormai sembra sinonimo di corruzione) e poi gli elettori si recano alle urne a votare per quel candidato e per quel programma se tutto questo li convince; e se il candidato vince, si verificherà nei fatti se questa linea politica sarà efficace. Se lo sarà, il merito andrà al gruppo dirigente e al segretario del partito; se non lo sarà, il demerito andrà a loro.
Era la politica come si faceva prima, si dirà. Ma forse, dopo la parentesi piuttosto mal riuscita di quella che potremmo chiamare iperdemocrazia, si potrebbe pensare di tornare a una più semplice vita democratica che lanci idee politiche. In questo modo, capiremmo tutti qual è la linea politica del Partito democratico, e di conseguenza se riuscirà a coinvolgere alleati, candidati prestigiosi, idee appassionanti. E di conseguenza se avrà un seguito.
Se invece si fanno le primarie, allora la politica resta quella degli ultimi anni, e le questioni stanno più o meno così: un candidato propone una politica quadrata, uno rotonda, uno rettangolare: vince chi ha più voti. E gli altri non saranno rappresentati (e, come abbiamo visto in questi anni, saranno incazzati, impermalositi e vendicativi). E non sarà responsabilità di nessun altro se non di chi ha votato alle primarie.
Tutto questo, oltretutto, non basterà alle primarie cittadine che ci aspettano nei prossimi mesi. Perché non è detto che il candidato che avrà vinto le primarie del Pd possa davvero essere il candidato sindaco, se poi ci sarà un altro partito con il quale sarà necessario allearsi per avere una speranza concreta di vittoria. E allora perché rimandare il problema sperando che non si presenti? Sarebbe più assennato affrontarlo prima. E ancora: alle primarie (del partito o, ancora peggio, di coalizione) si possono candidare anche aspiranti vincitori invisi al gruppo dirigente e alla linea politica vigente, e potrebbero vincere. E da loro si prenderebbero le distanze. O si farebbe finta di non prenderle, ma ci si macererebbe in segreto. Il risultato di quello che sto raccontando è già noto: il problema principale all’interno del partito o all’interno delle coalizioni è la disputa infinita tra le varie parti.
Enrico Letta potrebbe invece rispondere a questa investitura così ampia (non avuta dalle primarie) sia con un programma politico, sia con opportune alleanze nelle varie città, sia con la scelta di un nome (condiviso con gli eventuali alleati). Ci sarebbe una proposta politica chiara e simile in ogni parte d’Italia, ci sarebbe in gioco qualcosa che le primarie servono a eludere: la responsabilità di una segreteria di partito. Se per esempio a Roma non si è stati capaci di indicare un nome come candidato sindaco per mesi e mesi, anche prima di Letta, un motivo c’è. Ed è, sintetizzando: l’incapacità di decidere.
Ecco, se le primarie hanno un altro pregio, oltre al giorno festoso per il popolo elettore, è che risolvono il problema a chi non è stato capace di decidere.