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 2021  aprile 24 Sabato calendario

Le satire di Ariosto


Ludovico Ariosto scrive la Satira I nel 1517, quando un importante capitolo della sua vita si è concluso. Ha da poco pubblicato la prima edizione dell’Orlando furioso (22 aprile 1516), il suo meraviglioso poema, forse immortale, io lo spero, perché lo si legge ancora oggi dopo cinquecento anni con immenso e immutato piacere; la più grande gloria della lingua italiana, penso io. Circa contemporaneamente, nel 1517, termina il suo lungo servizio alle dipendenze del cardinale Ippolito d’Este, iniziato a ventinove anni, nel 1503 (il cardinale era più giovane, allora ne aveva ventiquattro, con tutte le esuberanze e frenesie di quella età), servizio continuato fino ai quarantatré anni, quando il cardinale lo avrebbe voluto portare con sé assieme alla sua larga corte in Ungheria, ad Agria (Eger) che era la sua sede vescovile. Il cardinale partirà il 25 ottobre 1517, ma Ariosto riuscirà a non seguirlo suscitandone lo sdegno e l’irritazione, e l’accusa di scarsa riconoscenza. (…)Le Satire, come già quelle di Orazio nell’antichità, sono pezzetti autobiografici, sfoghi umorali, per dire cosa non va nella vita, le insofferenze, la vita invece a cui avrebbe aspirato, come fosse un colloquio in confidenza con un amico, da tenere riservato. Infatti in vita non le ha mai pubblicate, la prima edizione dopo la morte, nel 1534. Il cardinale non avrebbe gradito. Per servire il cardinale, a un poeta conviene gettare i suoi versi nel cesso, e imparare invece a mettere in fresco i fiaschi di vino, a cucinare le starne, badare ai cani da caccia, far lume al cardinale di notte, tirargli via gli stivali, spogliarlo e metterlo a letto, tutte cose che neanche Ariosto sa fare, se le facesse sarebbe di sicuro meglio apprezzato. (…)Sul far carriera, per Ariosto, nessuna voglia di farla. Che gli importava sedersi a tavola per primo o avere un seguito di cento servitori se doveva perdere la libertà? Perché il signore è più vincolato del suo cameriere, il quale se ne può andare a zonzo dove gli piace, cosa che piace anche ad Ariosto, a piedi, a cavallo, per le viuzze o al mercato, da solo se vuole star solo, o con qualcuno se vuol chiacchierare, o andare a trovare la sua fiamma e far tardi, se la sua fiamma gli fa fare tardi; e non avere una divisa o un abito talare obbligato, potersi mettere in rosso, in verde, in giallo, o in braghe corte, senza che nessuno abbia niente da dire. Invece per fare carriera bisogna cominciare col diventare prete, quella era l’unica strada ai giorni suoi, anche se uno non c’era portato; e poi salire, diventare vescovo, poi cardinale, e sono spese, preoccupazioni per non andare in protesto, tanta gente al seguito da mantenere, cuochi, cocchieri eccetera eccetera, e qui ha in mente la vita dispendiosa e gravosa di Ippolito, il suo cardinale, col quale non avrebbe voluto far cambio. Il massimo della carriera sarebbe diventare papa, ma anche diventare papa non è un godimento, c’è da pensare ai parenti, che sono sempre tanti, sistemarli, trovare loro dei regni, e perciò fare guerre, più comodo e sicuro farle nei pressi, contro altri cristiani, ammazzarne; guarda un po’ cosa deve arrivare a fare un papa! e dare scomuniche, o indulgenze plenarie per farsi alleati, e ci vogliono soldi, non bastano mai, per pagare i soldati, che siano svizzeri o siano alemanni. Alla fine più uno è ricco e potente, meno soldi gli avanzano, deve tirare sulle spese, mangiarsi il pane nero, e del vino bersi la feccia, che in tal caso conviene solo pane e acqua pura. Questo sarebbe fare carriera, come spiega nella Satira II.Nella III che è di un anno dopo (1518) continua sul tema della carriera e della libertà, sempre meglio la libertà, dice, meglio una rapa cotta sulle braci di casa sua, pelata così, alla buona, e condita con aceto e sapa dolce di mosto, piuttosto che starne, tordi e gastronomiche raffinatezze, ma alle dipendenze di uno che ti comanda. Quanto alla carriera, aveva vagamente pensato di farla con l’elezione a papa di Leone X, della famiglia fiorentina dei Medici, era un suo vecchio amico, da molto prima che lo facessero papa Leone; aveva pensato che trasferendosi a Roma, standogli appresso, dopo che gli aveva baciato un piede e il papa l’aveva riconosciuto, si era chinato e due baci sinceri sulla guancia gli aveva restituito, aveva pensato e quasi sperato di diventare come minimo vescovo, anche se Ariosto vescovo si fa fatica a immaginarselo; che piega avrebbe preso il suo Orlando furioso? Però nella Satira confessa che la sera dei baci se n’era poi andato pieno di grandi illusioni e speranze, nonostante la pioggia, da San Pietro fino al Pantheon, a cena all’osteria del Montone, dove aveva cenato coi modi e i sentimenti di uno che è già mezzo vescovo. Per dire come era stata forte e credibile l’aspettativa. Poi com’è ovvio c’erano altri che venivano prima, una sfilza di fiorentini concittadini, i parenti stretti e i parenti lontani, quelli che l’avevano spalleggiato, quelli che avevano ospitato il fratello, chi gli aveva prestato soldi, e altro ancora, eccetera eccetera.Ma poi uno della carriera che se ne fa? Avrebbe vissuto meglio l’avessero riempito d’oro come un sultano turco? O fosse anche arrivato a diventare papa? Più di tanto né lui, né il papa, né il ricco riescono a mangiare, e quando si ha un buon letto e una cavalcatura, cos’altro? Anzi, tutti dal basso s’immaginano che chi sta su, sulla cima del monte con la luna a portata di mano, possa tranquillamente portarsi via a quintali pezzi di luna e di felicità, mentre anche lassù la luna è distante uguale, come le aspirazioni a fare carriera, che non hanno mai fine. Questo per dire che in fondo è meglio avere scritto l’Orlando furioso, essere vissuti per quel meraviglioso poema, averlo tutto tessuto, piuttosto che aver sgomitato per farsi largo nelle illusorie gerarchie del mondo, meglio l’Orlando furioso che essere papa. (…)Qual è la vita che piace fare ad Ariosto, o gli sarebbe piaciuto? Lo dice ripetutamente qui e là nelle Satire. Prima di tutto non muoversi da Ferrara; e poi una vita semplice, semplicissima, cibi rustici, la rapa cotta (Satira III), il vino un po’ annacquato, avrebbe dovuto vivere quando gli uomini mangiavano ghiande e nient’altro (Satira I). (…) L’unico altro luogo che ricorda con nostalgia, oltre a Ferrara, è la campagna di Reggio, i luoghi dove era nato, e la nostalgia del posto è anche la nostalgia dell’età giovanile, allora tra l’aprile e il maggio della sua vita, quando riempiva le carte di versi d’amore in latino (Satira IV); il Rodano, che a vederlo oggi è un rigagnolo anche leggermente putrido e maleodorante, e quasi secco, gli sembrava una delizia arcadica, dove le Naiadi facevano il bagno, e dove poi in luoghi simili del suo poema si riposerà Angelica o qualche altra leggiadra e cortese damigella. E dal colle Iaco di Albinea con la sua torre, dai bei prati attorno, dalle vigne, dal mulino, dal rio che sotto vi scorre, sgorgava allora solo poesia. (…)E poi c’è Alessandra. Le Satire sono cosparse qui e là di Alessandra e di pensieri per lei. Alessandra Benucci, conosciuta a Firenze, 1513; era sposata Strozzi, venuta ad abitare a Ferrara e rimasta vedova nel 1515. Nelle Rime traveste il primo incontro coi toni della lirica fatalità («Non so s’io potrò»); 24 giugno, il giorno di san Giovanni, non era la prima volta che l’incontrava, ma, quel giorno, di voi m’accesi, per i costumi affabili e cortesi. Aveva i capelli biondi raccolti, e un vestito di seta nero con due tralci di vite ricamati e intrecciati; i tralci erano l’immagine di loro due? si chiede; il ricamo tutto era ombroso, ditemi il senso ascoso.Nelle varie rime che Ariosto ha scritto si può seguire questa storia d’amore come l’ha vissuta e idealizzata, anche se le rime sono a volte esercizi poetici non riferibili con sicurezza ad Alessandra. Soffre per lei, per la sua mancanza, come per una ferita aperta, e se prova a curarla il tormento è peggiore. Quando un giorno vede Alessandra sull’altra sponda del Po, il cielo pieno di nubi e di tuoni si fa di colpo sereno. E poi la notte indimenticabile che ormai più non sperava, la porta che si apre senza rumore, la mano che lo guida nel buio, il profumo, la bocca sulla bocca, e poi avvinghiati che neanche l’acanto o l’edera; poi il letto, il buon fiato, il suo amore immerso e reimmerso, e la piccola lucerna benedetta, che così bella a lume spento Alessandra non si sarebbe manifestata. Poi le gioie, le sofferenze, i dubbi, le gelosie che lo prendono nel corso degli anni. Si lamenta che Alessandra si sia tagliata i capelli, e si lamentano anche i capelli d’essere da lei separati, nessuno scrigno d’oro o d’argento saranno degni al confronto di accoglierli. E intanto Ariosto vorrebbe strozzare quel medicastro che per profilassi (di cosa non si sa) glieli ha fatti tagliare. Lungo la strada per Roma, ottobre 1514, s’ammala di febbri, al passo del Furlo; se muore là vuole scritto sulla sua tomba che vivere non è riuscito lontano da lei, come una talpa buttata fuori da terra, o dall’acqua un pesce. (…)Quando il segretario ducale Pistofilo gli propone nel 1523 di andare a Roma a fare l’ambasciatore presso il nuovo papa Clemente VII, dice di no, subito, deciso, anche se ci sarebbe da guadagnare bene (Satira VII). Non vuole più essere tirato dalla speranza che lo tira come se avesse l’anello di un bufalo al naso. E qui sembra un maestro zen o uno stoico che ha capito come sia insensato e illusorio desiderare, e poi desiderare, e continuare a desiderare e angustiarsi per qualcosa che non dipende da lui, ma dalla ruota imperscrutabile della fortuna. Aveva già invano sperato con Leone X. Ma quello che vuole è stare a Ferrara, e se anche dirlo lo fa arrossire come una signora che si dà troppo rossetto, e le guance gli diventano rosse rubizze come un canonico che ha bevuto due fiaschi e si vergogna del terzo che gli è caduto e si è rotto; se anche ha già quarantatré anni sulle spalle e a quell’età sono pensieri che non sarebbero da fare più, lui vuole stare a Ferrara perché ci sta la sua amata Alessandra.La Satira IV parla della sua nomina a commissario ducale per la Garfagnana. Quando mestamente la scrive, febbraio 1523, è passato un anno dall’insediamento, e questi della Satira sono i primi versi che trova il tempo e la forza di scrivere; sono versi di uno a cui piange il cuore, perché governare è una cosa orrenda, dice Ariosto; orrenda in generale; e in particolare lì a Castelnuovo di Garfagnana, che è dentro una fossa profonda, le strade tutte in salita, solo boschi e rocce, non può uscirti un verso o una rima, perché tutto il giorno in ufficio ascolta solo liti, furti, odi, vendette, omicidi, ed è tutta una generale anarchia, ottantatré paesini e distretti da governare, ognuno vuole fare per conto suo, cosicché il commissario ducale, cioè lui, sta chiuso nella fortezza come un uccello in una gabbia nuova, dove riesce solo a tacere. E l’amata Alessandra è lontana: è un pensiero da giovinetto, ma è così; anche se ormai va verso i cinquanta. Forse a quel mestiere lui non è adatto, come quel veneziano a cui hanno donato un cavallo, i veneziani conoscono solo le barche, quindi si stringe al cavallo come fosse una barca, stringe le gambe e pianta di conseguenza gli sproni, il cavallo parte al galoppo e dopo poco il veneziano è per terra. Avrebbe dovuto dire: grazie, ma non sono adatto al cavallo! E altrettanto Ariosto: mandate un altro più adatto a fare il commissario ducale. Ma ormai è lì e deve sorbirselo tutto l’amaro della carriera. (