Tuttolibri, 24 aprile 2021
Sul Maglione rosso di Sturani
La storia del Maglione rosso, il romanzo che Mario Sturani scrisse di getto nel 1948 ma è rimasto inedito sino ad oggi, anche se la sua esistenza era ben nota, è un romanzo essa stessa, in cui si incrociano vicende personali e collettive della prima metà del ‘900. Sturani veniva da una famiglia di origini serbe che si era distinta nella lotta contro gli Ottomani, poi passata a Dubrovnik e da lì ad Ancona, dove Mario era nato nel 1906, per trasferirsi poi definitivamente con la famiglia a Torino nel 1921. Al Ginnasio Cavour era diventato amico di Cesare Pavese, che l’aveva poi cooptato nel gruppo dazeglino degli allievi di Augusto Monti. Vi spiccavano Leone Ginzburg (detto «il barbuto lion dei monti Urali» per via delle origini russe o anche «Agenzia Tass», perché sapeva tutto), Mila, Bobbio, Argan, Pinelli.S’era aggregato ai giovani futuristi torinesi che facevano capo a Fillìa, esponendo con lo pseudonimo di Ivan Benzina, e aveva collaborato con Sergio Tofano per le scenografie di una commedia con il signor Bonaventura. Aveva cominciato a lavorare per la ditta Lenci, che produceva ceramiche in tiratura limitata, bambole in panno colorato, oggetti d’arredo. Riusciva a fondare motivi futuristi, déco, naturalistici nella cifra tutta sua di un fiabesco stilizzato con eleganza.L’altra sua grande passione era l’entomologia, coltivata sin da ragazzo sulle rive del Sangone con Pavese (pur senza una preparazione specifica, sarà sempre apprezzato dai professionisti). Come già Gozzano e poi Primo Levi, lo affascinavano gli insetti, le farfalle, i coleotteri, gli scarabei, la fauna minima che siamo soliti guardare con disprezzo. Un sottomondo quasi clandestino che sapeva restituire con una precisione sublimata da una sapienza figurativa che poi darà prova di sé, tra tante altre, nel bellissimo album einaudiano del 1942, Caccia grossa tra le erbe.Accade che nel 1931 Sturani si stanca della routine, e tenta il gran colpo. Si trasferisce a Parigi, nella Mecca dell’arte, in cerca di gloria. Vuol vedere i grandi maestri, gli impressionisti. Le cose non andranno come desiderava. Accolto da un amico in una soffitta surriscaldata (ospita le caldaie), scopre che in città si aggirano almeno sessantamila pittori, il mercato è fermo, e nemmeno quei sempliciotti degli americani comperano più. La fame è una minaccia quotidiana. Bussa invano alla porta di galleristi, riviste di moda, agenzie pubblicitarie. Si rassegna ad eseguire maschere mortuarie, ad affrescare cappelle nei cimiteri, tenta una complicata statua equestre, sarebbe disposto a fare l’uomo-sandwich. Alla fine, quando sta per cedere, ottiene un impiego come valet de chambre di un vecchio e ricco armatore americano, circondato da una folta servitù intrigante e predatrice.Non si scoraggia mai. Parigi gli piace tutta, anche la più degradata, come campionario di una umanità pittoresca, disegnata con divertita empatia. Fino a quando una grande mostra dedicata a Picasso affossa definitivamente le sue ambizioni. L’impressione che ne ricava è enorme: gli sembra il genio potente che ha saputo rappresentare il crollo della civiltà occidentale, ridotta a un cumulo di rovine. La sua opera è quasi un’autopsia: solo la grande arte può rivelare a se stessa questa novella Pompei dissepolta.La consapevolezza dei propri limiti lo apre a una nuova visione del mondo, si accompagna alla maturazione di una coscienza politica, l’uscita dalla «zona grigia» degli ignavi che fanno finta di non vedere, cui concorrono in maniera sostanziale Leone Ginzburg, che arriva a Parigi per perfezionare la sua tesi su Maupassant e incontrare gli amici fuoriusciti, e un calzolaio antifascista. Quando torna a Torino, accetta di portare una lettera a un altro militante, il professor Carlo Ponti (alias Augusto Monti) per avvertirlo dei pericoli che corre. Arriva troppo tardi, lo hanno appena arrestato. Ma conosce la figlia: è una bella ragazza dagli occhi puliti, lo «sguardo dritto e triste di donna fatta». Sarà l’amore della sua vita. Anche indossare lo stesso maglione rosso con il quale era stato sorpreso anni prima in un bordello, sprovvisto di documenti, acquista un senso, diventa un segno identitario, il colore di una conversione.Queste «le storie di Parigi» che Sturani ha raccontato tante volte agli amici e che si decide a mettere per iscritto nel 1948, appena travestito nei panni di Sergio Sivari. Pavese ha appena pubblicato Il compagno, storia della maturazione politica di un proletario, ma il modello è il rivoluzionario Céline anti-borghese del Viaggio al termine della notte e di Morte a credito. Credo che non gli sia estraneo nemmeno un romanzo minore di Salgari, La Bohème italiana, in cui si muove maldestramente un gruppo di pittori torinesi un po’ sfigati che scimmiottavano i più pittoreschi colleghi parigini.Racconta svelto, in allegretto, giocando su un «parlato» credibile, magari con qualche ingenuità stilistica che gli si perdona volentieri. È convinto d’aver scritto un libro importante «per il popolo, per tutti»(l’accessibilità della letteratura ai non colti è uno dei temi dibattuti su l’Unità e ci si arrovella lo stesso Pavese).Ma a Pavese il romanzo non piace, lo annota infastidito nel diario, glielo dice a voce, probabilmente a brutto muso. Più del testo in sé e del suo finale un po’ edificante, non sopporta la franca adesione alla vita dell’amico, la sua armonia coniugale, il suo aver combattuto nelle brigate Matteotti del Canavese mentre lui se ne stava rintanato in un collegio del Monferrato. A sua volta, Sturani lo accusa di essere un autore ermetico, difficile (pensa ai Dialoghi con Leucò). È una frattura dolorosa, una ferita profonda. Non tenta altre collocazioni: o la casa editrice dei suoi vecchi amici, o niente. Mette il romanzo in un cassetto e lo lascia lì. Adesso, settant’anni dopo, l’editore Aragno lo restituisce all’onor del mondo, guadagnandosi un’altra benemerenza. È ottimamente introdotto da Gino Ruozzi, che fornisce ogni possibile inquadramento, ed equipaggiato con le memorie del figlio Enrico, che ci danno conto di gustosi retroscena famigliari. Un maglione rosso che indossiamo volentieri anche noi. —