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 2021  aprile 24 Sabato calendario

Grazia Deledda , la scrittrice che non cercava il lieto fine


Nei ritrovamenti di relitti marini, a qualche fortunato cercatore di tesori può talvolta capitare di trovare, insieme a bauli di dobloni spagnoli e casse di incrostatissima argenteria francese, anche qualche fornitura di vino pregiato che non ha mai raggiunto la destinazione e le cui bottiglie sono rimaste sul fondo del mare per decine e talvolta centinaia di anni. In quel buio d’abisso, tra i moti lentissimi dei fondali e il freddo di acque mai scaldate dal sole, i vini seppelliti dal naufragio maturano in condizioni irripetibili, con i lieviti appena smossi dalle correnti e nessuna interferenza umana. Le bottiglie di questa natura, una volta emerse, vengono spesso vendute all’asta per prezzi notevoli, a dispetto del fatto che chi le acquista ignori l’effettiva bevibilità del vino, prodotto in tempi in cui i vinificatori non avevano sofisticazioni a disposizione per garantire permanenza alla sua qualità. Talvolta dai colli delle ampolle ottocentesche emergono sfiati insopportabili e l’unica soddisfazione di chi ha pagato caro quell’appuntamento al buio è l’illusione di aver fatto proprio almeno un pezzetto di storia piratesca. In altri casi – ben più rari, va detto – l’aver avuto per balia le acque profonde rende però alcuni vini (soprattutto rossi) dei nettari di incalcolabile pregio.Il romanzo Cenere, classe 1903 e lunghissima dimenticanza in fondo all’oceano dell’editoria novecentesca, può fare a un lettore o a una lettrice contemporanea esattamente lo stesso effetto che prova un ricco collezionista che ha strappato ai pesci ciechi degli abissi la bottiglia fortunata. Alla prima pagina si viene investiti da un effluvio di sentori violenti. Tutto è marcato oltremodo, perché Deledda è scrittrice di fortissime passioni, e del resto ne esistono forse di altro tipo? Chi ama, come Olì, la protagonista della prima parte del romanzo, lo fa fino al midollo spinale, a dispetto di ogni convenienza e anche a costo di rovinarsi. Chi nutre odio, come suo figlio Anania bambino e poi adulto, ha memoria d’elefante e al momento giusto sfodererà ferocia di felino. Solo le scelte personali sono scolorite rispetto ai sentimenti, perché nel mondo deleddiano chiunque sia convinto di decidere qualcosa lo farà sempre soltanto a metà. Dietro ogni posizione apparentemente volitiva si intravede infatti un filo segreto che lega ogni personaggio a un destino più forte – che lo tira, lo tira… – contro il quale è impossibile andare. Più che farle succedere, i protagonisti di Cenere le cose se le vedono succedere come ineluttabili eventi atmosferici, senza potersi mai davvero opporre, sull’onda preparatoria di una poetica che dieci anni dopo culminerà nel ben più riuscito Canne al vento. Difficile immaginare lieti fini quando le premesse sono queste, ma se cercate finali rassicuranti, il campanello giusto non è mai quello di casa Deledda. Per lei scrivere è un atto di incisione carnale di una parte dolorante, l’occasione di investigazione di quel torbido dell’animo umano che negli ambienti perbene nessuno si azzarda a smuovere, per il giusto timore che la fanghiglia sollevata riveli che in fondo nessuno è pulito.A dispetto della sua tragicità (o forse per quella) il romanzo ebbe però molta fortuna e, tredici anni dopo, la nascente industria del cinema scelse di trarre proprio dalla sua storia una pellicola rudimentale, ovviamente muta, che testimonia l’unica interpretazione cinematografica di Eleonora Duse, facile da reperire gratis sulla rete, se avete gusti vintage. Nella trama non ci sono eventi epici, ma la sola cosa che a Grazia Deledda interessava: le persone e il modo in cui si dipanano le loro relazioni nei micromondi in cui vivono, scenari rurali pieni di cose visibili e soprattutto invisibili, in continuo rapporto di attrazione e rigetto con l’altrove, che sia il Continente o il mito ancora nascente della città. Nel mondo di Cenere c’è la Sardegna mezzadra e rude, cristallizzata in un eterno ottocento, scenario ideale per il topos letterario post-coloniale dell’essere e sentirsi periferia di tutto, anche della propria vita. Per capire il mondo e sé stessi i personaggi hanno come via un circuito chiuso, dove l’illusione dell’andarsene è già il primo passo del ritornare. Così Anania il mugnaio girerà la ruota della mola in eterno sognando i tesori nascosti nei nuraghes che non troverà mai, e così Anania suo figlio cercherà prima lui avendo la madre, e poi la madre pur vivendo con lui, in un inseguimento senza fine dove l’assenza è il solo modo possibile di vivere l’amore e dunque colmarla vuol dire perderlo.Cenere è anche un romanzo-spia, un dispositivo rivelatore della biblioteca di formazione deleddiana, giacché contiene decine di omaggi più o meno nascosti agli autori che la scrittrice nuorese amava. Due per tutti, i più evidenti, sono gli echi dell’Addio ai monti di Manzoni, rimesso in cuore al piccolo protagonista mentre lascia la famiglia, e la dantesca «ora che volge il disio ai navicanti» e segna l’incipit del primo capitolo della seconda parte del romanzo. Il debito più forte è però sempre quello con l’universo immaginario di Emily Brontë, con il quale le atmosfere deleddiane intrecciano un duetto di sororità, Barbagia e brughiera, fatto tutto di acuti. In entrambe le autrici il paesaggio aspro e continuamente sconvolto dagli eventi meteorologici è sempre un ulteriore personaggio, metafora della natura umana in balìa di forze dalle quali può trovare solo temporanei ripari, prima di rivelare una volta per tutte quel fondo torbido dove tutti siamo e restiamo bottiglie perse. —