Tuttolibri, 24 aprile 2021
Intervista a Jonas Jonasson
Scrive al computer e quando lavora a un nuovo libro si aiuta con una «scaletta» per la trama, non ascolta musica e non beve alcolici. Fine delle regole. Tutto il resto è fantasia. E divertimento. Non c’è fatica nel metodo, non ci sono crisi da pagina bianca: «So che per molti scrittori il processo creativo è sofferenza, ma per me è gioia pura». Lo scrittore svedese Jonas Jonasson è gioia pura. Leggero, nel senso più profondo del termine, riesce a far luce sulle crepe della Storia prendendosi gioco dei cattivi, consapevole che prima o poi «una risata li seppellirà». E per approcciare le brutture del mondo, s’ispira alla chiave di lettura offerta dal film La vita è belladi Roberto Benigni.Jonasson è diventato famoso nel 2009, a 48 anni, con il suo primo libro Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve tradotto in 46 paesi (10 milioni di copie), dopo una carriera da giornalista e produttore televisivo che lo logorò fino all’esaurimento. Ma, come spesso accade di fronte ai deragliamenti della vita, quello stop forzato fu anche occasione per trovare un senso e coltivare la passione per la scrittura: «Mi sono sempre sentito un autore, solo che fino a un certo punto avevo priorità diverse». Da allora, ci sono stati altri tre successi, inclusa una nuova odissea per l’intrepido vecchietto Allan Karlsson. In questo quinto romanzo, Dolce è la vendetta SpA, Jonasson non abbandona il suo tratto distintivo, l’umorismo, quel modo brillante di sdrammatizzare e raccontare errori e mancanze di un’epoca, abbandona invece il suo centenario.È stato difficile lasciare Allan?«Allan c’è sempre, lui sta seduto sulla mia spalla. È sempre calmo e freddo, mi aiuta se sono stressato e nervoso. Quando, ad esempio, ho paura di perdere un aereo, lui è qui, non mi chiama mai per nome ma sempre “Signor Jonasson” e mi dice: “Calmati, non perderai il volo. E se dovesse succedere, ci sarà un altro aereo”. In questo senso non ci lascerà mai».Sì, ma noi non lo rivedremo più...«Direi di no, per ovvi motivi anagrafici».Ci rifaremo con “Dolce la vendetta SpA”, con i suoi personaggi altrettanto esilaranti, coraggiosi e un po’ assurdi, primo fra tutti il guaritore masai Ole Mbatian: ma dove li pesca?«Mi piacciono gli antieroi. Nella vita reale colleziono persone che hanno qualcosa di diverso rispetto alla media».Ad esempio?«Quando vivevo nell’isola di Gotland, in mezzo al mar Baltico, avevo un pollaio con due galli e otto galline. Un giorno la volpe uccise una gallina, così andai dall’allevatore per comprarne un’altra e conobbi questo ragazzo, che era sì un allevatore, ma era anche un insegnante di Ju jitsu, e pure professore di musica classica e imprenditore nel campo dei go-kart, con un dottorato in economia. Era così tante cose che non avrei mai potuto metterlo in un libro perché nessuno mi avrebbe creduto. Ma ho preso spunto. Faccio sempre così: mescolo i tratti e le caratteristiche della gente meno ordinaria e creo i miei personaggi».Che fine hanno fatto poi le galline a Gotland?«Ho lasciato tutto, mi sono dovuto trasferire in un sobborgo di Stoccolma con mio figlio, che ha compiuto 14 anni e doveva cambiare scuola. Stiamo in una casa di 114 metri quadrati che subito mi sembrava minuscola, considerati gli spazi di Gotland, ora mi sono abituato, anche senza polli».Nel suo libro la vendetta è il fil rouge, sembra giustificarla: noi lettori stiamo dalla parte dei vendicatori, di Ole Mbatian, del figlio Kevin, della sua ragazza Jenny e di Hugo, il fondatore di “Dolce la vendetta Spa”. Lei è vendicativo?«Una volta ero ospite alla tv svedese e mi chiesero cosa pensavo della vendetta. Risposi convinto: “Oh no, è una pessima cosa”. Poi il presentatore aggiunse: “Beh, allora come reagirebbe se qualcuno le rubasse il pranzo?”. A quel punto iniziai a elencare le cose peggiori che avrei fatto. A parte gli scherzi, credo che la vendetta debba restare teorica. Come una sorta di auto-terapia: se hai pessimi vicini di casa, puoi sederti al tavolo e iniziare a inventare ogni genere di cose che vorresti orchestrare contro di loro. Ma poi… Non farle!».Per scrivere il primo libro disse di averci impiegato 47 anni. E per questo?«A volte mi succede di sognare un capitolo la notte e poi mettermi a scrivere in modo febbrile come se fossi dentro una bolla, ma è un modo di lavorare troppo intenso e irreale, perché poi, di fronte alle incombenze quotidiane (portare il figlio a scuola, le vacanze etc..) la bolla inevitabilmente scoppia. Se così non fosse potrei scrivere un libro anche in pochi mesi, ma in realtà alla fine impiego almeno due anni».Tra colpi di scena e surreali avventure nel suo libro difende la libertà artistica, attraverso l’incursione del personaggio, realmente esistito, di Irma Stern, una delle più grandi pittrici sudafricane del Novecento e i tanti rimandi all’Espressionismo. C’è affinità tra la sua scrittura e questa corrente artistica?«Penso di si, e ne sono orgoglioso: l’Espressionismo ha molto colore e calore. E, se posso, penso che lo stesso valga per il mio stile di scrittura. Si può “leggere” su più livelli: se guardi oltre i colori di un dipinto espressionista, puoi vedere anche i sentimenti interiori della persona ritratta. Ed è esattamente quello che cerco di ottenere io con i miei libri: voglio strappare un sorriso, una risata, ma sullo sfondo c’è sempre una riflessione sullo stato del mondo».A proposito di arte e di mondo: ci salverà la bellezza?«Da quando i social media sono entrati nella nostra vita, non sono sicuro che qualcosa possa salvarci. Credo che la democrazia sia seriamente minacciata. Il giornalismo che prima aiutava le persone a formarsi un’opinione oggi è ridotto a brevi messaggi su Twitter: in 250 caratteri dovresti riassumere lo stato del mondo ma questo non è possibile. L’ex presidente Donald Trump è un esempio straordinario di quanto il dibattito intellettuale si sia ridotto a un sintetico e banale “vero o falso” o “Cacciamoli via” etc...»Sembra meno ottimista rispetto a 12 anni fa: all’epoca affrontò le miserie del Novecento, ma sempre con tanta speranza. Ed ora?«Devo essere ottimista, anche oggi e anche se non sono sicuro di avere un motivo per esserlo. L’umanità è generalmente stupida, ma non così stupida. Forse dobbiamo ancora toccare il fondo e a quel punto risaliremo. Se penso al clima, ad esempio, forse abbiamo bisogno che l’Artico si sciolga o che le Midlands vadano sott’acqua, o qualcosa di ancora più disastroso, ma alla fine reagiremo tutti insieme e allora andrà meglio».A difendere il clima, in Svezia avete Greta Thunberg. Lei non le dà speranza?«Sì, certo, lei mi piace molto: è brillante e introversa e mi ricorda molto mio figlio, abbiamo bisogno di voci come la sua, di tornare a sentire messaggi come quelli di Nelson Mandela e Mahtma Gandhi, di politici forti e leader impegnati».Nel suo libro ci sono stoccate a Trump, a Xi Jinping e al presidente del Brasile Jair Bolsonaro. Le fanno paura?«Molta. Per via dei social e della memoria corta stanno tornando le voci degli anni Trenta del Novecento, non solo nei paesi non democratici, ma anche nelle presunte democrazie come l’Ungheria, la Polonia, il Brasile, senza contare gli Stati Uniti. Mi disgusta che alcuni partiti politici, anche qui in Svezia, vorrebbero controllare la cultura, la letteratura e l’arte come avviene in Cina. La libertà di espressione deve prevalere ed essere tutelata sempre, ma purtroppo non è così».Dalla sua penna l’Africa ne esce meglio. Che rapporto ha con quel continente?«È la mia seconda casa. Ci vivono il mio migliore amico e il mio figlioccio. Per me è un concentrato di tutto: è così tragica, bella, criminale, con gente meravigliosa».Dove andrà appena sarà possibile tornare a viaggiare?«In Africa, appunto. E poi a trovare i parenti in Florida».Chiudiamo in dolcezza: quanta marmellata nel romanzo... c’è persino un omicidio a suon di marmellata di mirtilli. Non le piace?«Tutt’altro! La mia preferita è quella d’arancia, ma in realtà vado matto per i “lingonberries”, non so se li avete in Italia. Sono i mirtilli rossi». —