Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  aprile 24 Sabato calendario

"Se quei maledetti negri saranno liberi ci ruberanno le donne e le galline"


«Il vecchio chiuse gli occhi e tacque. Il cigolio della sedia a dondolo continuò ancora per qualche istante prima di interrompersi». È una scena che potrebbe rinviare ai tanti western che abbiamo visto, ma qui siamo in Alabama, come annuncia il titolo del romanzo di Alessandro Barbero, e in tutt’altro contesto. Dirò subito che l’autore continua a stupirci per la sua duttilità e curiosità, che lo fanno valicare la professione di medievista per dedicarsi alla narrativa, attingendo a sfondi storici diversificati e inusitati, tra l’antica Grecia e la Francia dell’Ottocento. Quel vecchio dunque è un veterano della Guerra Civile americana, un «povero bianco» che ha combattuto tra le file della Confederazione: uno dei pochi sopravvissuti, dal momento che gli Stati Uniti stanno combattendo ora un’altra guerra, contro i giapponesi nel lontano Pacifico. Ha di fronte a sé una ragazza che sta preparando la tesi di laurea, tesa a verificare la fondatezza di un episodio di allora sul quale esistono labili tracce e che del resto lascia increduli per la sua enormità. Non è irrilevante rammentare che la studentessa appartiene a una buona, civile famiglia del Sud e che la sua inchiesta non ubbidisce a una semplice sollecitazione di natura accademica.
Ascoltiamo dunque il racconto del vecchio Dick Stanton, interrotto appena da qualche momento di sopore o stanchezza, mentre mastica e succhia il suo bolo di tabacco. E qui va sottolineata, sul piano stilistico, la bravura di Barbero che risolve di fatto il romanzo nella voce fluente, logorroica di Stanton, che aduna via via un concerto di altre voci. Appena spezzata dai brevi commenti e riflessioni della ragazza che prende appunti su un quadernetto. Stanton, intanto, si abbandona all’onda dei ricordi, intermittenti e divaganti, offrendo, al di là del tema ispiratore, un vivido quadro della vita nelle contee del Sud prima e dopo la guerra civile. È un mondo basato sulla prevalente coltura agricola, cotone e granturco, in cui i grandi possidenti spadroneggiano su una massa di contadini poveri che si rivalgono a loro volta sui negri ridotti in schiavitù. I giocosi tratti picareschi non occultano la diffusa propensione alla violenza. Come deduce la ragazza, da quelle parti «sparare ai cani, sgozzare il maiale, ammazzare i negri che differenza fa? Il fucile ce l’hanno tutti, gli insegnano a maneggiarlo già da bambini».
Stanton racconta l’entusiasmo spavaldo con cui affrontarono i detestabili yankees per difendere l’onore e la libertà del loro paese. Gli brucia quella pretesa di abolire la schiavitù: «e Jack disse, ma ve l’immaginate, tutti quei negri liberi di andare dove vogliono, a vagabondare per la campagna, a rubare le galline, e magari entrare in casa di qualche donna bianca quando è sola, eh?, e Mitch disse, non finché viviamo, e io dissi per ridere, magari gli vogliono dare anche il voto, eh?». E come si farebbe a dissodare la terra e raccogliere il cotone senza l’impiego dei negri? Sono atteggiamenti che trovano alimento negli esagitati predicatori di una Bibbia letteralmente spietata. Senza dare retta ai discorsi di qualche forestiero del Nord: «Ma quali negri? Ci dovete lavorare voi, nelle fabbriche. Lo sapete quanto guadagna un operaio a Cincinnati, nell’Ohio?». Sembra che, dove si accenna alle motivazioni economiche della Guerra Civile, sia lo storico Barbero a «suggerire» certi spunti nel fluviale, dissennato argomentare del vecchio.
Il culmine del racconto, e la soluzione della ricerca, avviene dopo la feroce battaglia di Wilderness, al termine del vicendevole massacro. Quando i confederati, provvisoriamente vincitori, scoprono che a difendere una trincea nemica c’erano una quantità di negri. E lo stupore si tramuta in rabbia: essi sono doppiamente colpevoli perché hanno sparato contro i loro padroni. Contro coloro che, secondo una ipocrita vulgata, erano i loro protettori e benefattori. Quei prigionieri furono sterminati tutti senza pietà. È la pagina più atroce tra le tante che nel libro trattano, al meglio, di negri comprati e venduti. La ragazza può riporre il suo quadernetto. Sperava forse che almeno questo, tra tanta intollerabile violenza, le fosse risparmiato. E teme di essere contaminata dall’ombra lunga di quella storia che ha disseppellito. Forse Barbero non se lo è chiaramente proposto, ma certo il suo romanzo risponde al turbamento che proviamo davanti al razzismo e alle antiche ferite riaffioranti nella società americana. —