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 2021  aprile 24 Sabato calendario

Intervista a Gastone Cottino


Torino
Mercoledì 25 aprile 1945, a Torino, è una giornata di attesa. Il giorno prima viene comunicato il celebre telegramma «Aldo dice 26x1». L’insurrezione è imminente, l’eccitazione al massimo. Gastone Cottino è uno studente di Giurisprudenza di 20 anni. È uno dei partigiani appartenente ai «Giovani liberali». Ricorda benissimo quella mattina, nonostante siano passati 76 anni, la gran parte dei quali trascorsi come docente di Diritto commerciale nell’ateneo torinese. Materia di cui è caposcuola e massimo esponente a livello nazionale.
Professor Cottino, cosa è Torino quella mattina?
«Una città che non vede l’ora di insorgere. Perché è vero che avremmo liberato la città il giorno successivo, 26 aprile, ma c’era molta voglia di passare all’azione».
Il primo ricordo di quel giorno?
«Guardi, è un’immagine che non potrò mai dimenticare. In una via Cernaia ancora distrutta mi trovavo con un carretto in mano. Una coperta copriva allo sguardo dei pochi passanti il materiale che stavo trasportando: erano armi. Passai indenne sotto la Caserma Cernaia. Si rende conto?. Oggi è la sede della Scuola allievi dei Carabinieri, ma all’epoca era di stanza la Brigata Nera. Ancora mi domando come sia stato possibile. A guidarmi era sicuramente l’incoscienza dei vent’anni, ma soprattutto la consapevolezza che eravamo nell’imminenza di un evento di portata storica».
Perché passava proprio di lì?
«Avevo ritirato le armi dalla cantina dell’abitazione di Edgardo Sogno, in via Donati, nei pressi di Porta Susa, e le dovevo portare verso il Municipio, per attaccare il Palazzo di Città. Era quello l’obiettivo del nostro gruppo».
E ci siete riusciti?
«Certamente! Il giorno dopo, il 26, con le stesse armi del carretto. È stata determinante la collaborazione dei Vigili Urbani. Abbiamo così arrestato il podestà Michele Fassio. C’è una foto che immortala quel momento: con tutto il gruppo siamo ritratti sul balcone del Municipio già libero. L’edificio è visibilmente danneggiato in più parti per colpa degli attacchi tedeschi».
Torniamo all’autunno 1943, quando nasce la Resistenza. Cosa accade?
«Avevo 18 anni, ero al primo anno di Giurisprudenza. Dopo l’8 settembre si apre una fase nuova e ignota. In realtà la mia fu una scelta immediata, perché la critica al fascismo era insita in me, e nella mia famiglia, da tempo. Il vero scatto d’orgoglio arriva con la diserzione al Bando Graziani, la chiamata alle armi della Repubblica Sociale Italiana per la costituzione del nuovo esercito repubblichino per le leve 1923-‘24-’25».
Un’esperienza non solo di vita, ma anche intellettuale.
«Altroché. Consideri che nel mio percorso di giovane partigiano ho conosciuto e mi sono via via confrontato con personalità importanti: dal colonnello Giuseppe Ratti al giurista Paolo Greco, dal futuro vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno all’editore Paolo Boringhieri, dal saggista Franco Antonicelli al politico Vittorio Badini Confalonieri. Ho già citato prima Edgardo Sogno, ma voglio ancora ricordare don Luigi Cocco, un missionario salesiano che gestiva una delle radio clandestine partigiane».
Nella sua attività di giovane partigiano ha mai rischiato di essere catturato?
«Due volte. La prima nel giugno del 1944, nei giorni dello sbarco in Normandia: mi avevano praticamente preso, ma approfittai di un momento di distrazione per scappare, trovando riparo a bordo di un tram. La seconda volta il 21 gennaio 1945: una ragazza repubblichina di 16 anni si era infiltrata facendo innamorare un membro del nostro gruppo. Ci denunciò: mi salvai unicamente grazie alla verduriera sotto casa mia, che mi accolse in casa, per passare successivamente nell’abitazione di altri eroi, a cui dovevamo tutto, che proteggevano: mi spacciarono per un loro nipote proveniente dalla Sardegna di sei anni più vecchio. Riuscii anche ad avere documenti falsi».
All’interno del vostro gruppo c’erano discussioni sul futuro dell’Italia dopo la fine della guerra?
«Inizialmente no, i nostri incontri erano squisitamente di tipo organizzativo e logistico, per pianificare le azioni. Tutto cambia quando diamo alle stampe una rivista. Si chiama Gioventù liberale. E guardi che non era assolutamente cosa semplice organizzarla, perché trovare un tipografo disponibile era impresa difficilissima. Ne trovammo uno, correndo rischi enormi. In ogni caso la discussione principale era circa la forma istituzionale da dare alla nuova Italia: se repubblicana o monarchica».
E lei come la vedeva, l’Italia del futuro?
«Repubblicana, assolutamente! Anche se per me questa è una ferita enorme».
Perché?
«Avevo compiuto 21 anni l’8 febbraio 1946, ma la legge elettorale prevedeva che bisognasse avere 21 anni al 31 dicembre 1945: per appena 40 giorni mi è stato precluso l’accesso alle urne. Provai ad appellarmi alla legge, fu il mio primo approccio da giurista, ma la richiesta venne respinta. Per venti mesi ho combattuto per cambiare la pelle all’Italia, per un nuovo mondo, e alla fine mi sono dovuto accontentare di convincere i miei genitori a votare Repubblica». —