La Stampa, 24 aprile 2021
Renzi nel board del principe saudita
«Le mie attività sono tutte in regola e compatibili con quella di parlamentare». Quante volte abbiamo sentito dire questa frase a Matteo Renzi, a chi gli contestava una delle sue tante trasferte tra Riad e Dubai. Mettendo da parte le questioni di opportunità politica, a livello legale il leader di Italia Viva ha ragione. Nel senso che, ad oggi, in Italia non c’è una legge che gli vieti di essere un senatore della Repubblica e, allo stesso tempo, sedere nel comitato consultivo del Future Investment Institute, controllato dal fondo sovrano del governo saudita. Incarico per il quale percepirebbe un compenso di 80 mila dollari all’anno. Non solo, come raccontato dal quotidiano Il Domani, l’ex premier fa parte di un altro advisory board, quello della Royal Commission of Alula, che si occupa dello sviluppo della città “verde e sostenibile” dell’Arabia Saudita. È un progetto a cui tiene molto il principe reggente Mohammed bin Salman, amico personale di Renzi e accusato dalla Cia di essere il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Kashoggi. In questo caso, non sappiamo quale sia il “gettone” attribuito al leader di Italia Viva per la sua presenza.
A livello internazionale le chiamano “revolving doors": il passaggio di politici o funzionari pubblici a un incarico dirigenziale presso un ente privato, con il rischio che possano portare con sé informazioni preziose e avvalersi della loro preziosa rete di relazioni. Per questo, nella maggior parte dei Paesi europei, sono in vigore norme che prevedono un periodo di raffreddamento ("cooling off"), in cui gli ex politici o manager pubblici non possono assumere cariche in enti privati o svolgere attività di lobbying. La pratica internazionale definisce questo periodo da un minimo di un anno fino a un massimo di tre anni, a seconda dell’incarico che si è ricoperto. L’Italia è uno dei pochi Paesi a non avere una legge di questo tipo, tanto che abbiamo avuto due casi recenti esemplificativi: l’ex ministro dell’Economia, Piercarlo Padoan, che si è dimesso da deputato per entrare nel consiglio di amministrazione di Unicredit e l’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti, che ha lasciato il Parlamento per assumere la guida della fondazione Med-Or, nuova creatura di Leonardo, il colosso della Difesa e dell’aerospazio. Poi c’è Matteo Renzi, che non è nemmeno un ex, almeno non ancora, visto che continua a svolgere il suo mandato a Palazzo Madama. Dove non esiste uno straccio di codice etico, che disciplini il comportamento dei senatori. Nell’ultimo rapporto del Gruppo di Stati contro la corruzione (Greco), organo del Consiglio d’Europa, si fa esplicito riferimento al caso italiano, con la richiesta di formalizzare i codici di condotta di Camera e Senato. Quello di Montecitorio, infatti, non contiene alcun accenno alle porte girevoli, ma obbliga i deputati a dichiarare solo gli incarichi ricoperti quando si candidano ed eventuali nuovi impieghi assunti dopo la propria elezione. Il Senato, come detto, un codice di condotta non ce l’ha, nonostante il regolamento rivisto nel 2017 ne preveda l’adozione. Difficile dire se arriverà prima il codice o una legge specifica.
Al momento in Parlamento ci sono alcune proposte di legge che provano a intervenire su questo fenomeno. Sono quelle presentate da Anna Macina del M5s, nel frattempo diventata sottosegretaria alla Giustizia, e da Francesco Boccia ed Emanuele Fiano del Pd. Proposte poi raggruppate in un testo base da Giuseppe Brescia, presidente M5s della commissione Affari costituzionali della Camera. È fermo lì da parecchi mesi. Punta a frenare la pratica delle porte girevoli, ma con limitazioni solo per chi ha ricoperto incarichi di governo e con un periodo di “raffreddamento” ristretto a un anno. Per i parlamentari non è prevista alcuna limitazione. Quindi, per abbracciare anche il “caso Renzi” (che ha lasciato palazzo Chigi più di 4 anni fa), serve un’integrazione. Oltre che un’accelerazione.